Adriano Maini
adrianomaini.poliverso.org.ap.brid.gy
Adriano Maini
@adrianomaini.poliverso.org.ap.brid.gy
Pensionato di Bordighera, nella Riviera Ligure di Ponente, che predilige tentare di divulgare quelle che ritiene pagine interessanti di storia e di […]

[bridged from https://poliverso.org/profile/adrianomaini on the fediverse by https://fed.brid.gy/ ]
Bruno Fonzi stava curando la pubblicazione dell’”Isola di Arturo” adrianomaini.altervista.org/br…
Bruno Fonzi stava curando la pubblicazione dell’”Isola di Arturo”
Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954 Claudio Claudi, incoraggiato forse da alcuni amici <141, spedisce presumibilmente il manoscritto de _L’anatra mandarina_ all’Einaudi. L’eventualità di pubblicare il testo viene considerata dall’autore come «una possibilità di lavoro ancora libera e felice, un’espressione di personalità» <142. L’opera si caratterizza come la realizzazione di «un “libro” da un diario di pensiero» <143, in cui l’autore cerca di mostrare la sua riflessione teorica a partire dalla sua dimensione biografica, operazione che gli costa la fatica di passare «da un problema a un altro, da un piano intellettuale ad un altro» <144. Il 5 ottobre del 1954 Bruno Fonzi <145 e Renato Solmi <146 rispondono a Claudi ricusando la pubblicazione del testo. Le motivazioni del rigetto vengono individuate in problematiche di natura principalmente teorica. Solmi considera il testo «anacronistico» <147 e non in linea con l’impostazione ideologica della casa editrice torinese, in quanto l’individuo si caratterizza come «un prodotto della storia, e tutt’altro che “eterna luce trascendente”» <148. Oltre alle critiche di Solmi, Fonzi precisa come «alcuni capitoli mancano di quell’assoluto rigore stilistico, o concettuale, che il genere richiede; o meglio, l’approssimazione stilistica riflette l’imperfetta chiarezza concettuale» <149. Gli effetti psicologici di queste critiche sono devastanti e amplificano una situazione già difficile e dolorosa, come descritto nel diario 1954: “Il rifiuto del mio libro da parte di Einaudi è stato un colpo netto che ho avvertito come una pugnalata allo stomaco. Qualunque siano le ragioni è stato tuttavia un rifiuto, il colpo di ritorno di boomerang lanciato in una direzione sbagliata” <150. _141 «Ho dato in lettura quella specie di piccolo o grosso zibaldone che mi accade talvolta di indicare col nome di diario» (Diario 1949-1955, p. 49). E più avanti troviamo: «Pare che certo mio diario filosofico piaccia. Oggi ho sognato una bella edizione presso uno degli editori più importanti d’Italia» (Ivi, p. 50). 142 Diario 1954 gen, p. 20. 143 Ivi. 144 Ivi. 145 Bruno Fonzi (Macerata, 27 gennaio 1914 – Milano, 5 giugno 1976) è stato uno scrittore e traduttore italiano, collaboratore di case editrici. 146 Renato Solmi (Aosta, 27 marzo 1927 – Torino, 25 marzo 2015) è stato un germanista, traduttore e insegnante italiano. 147 F.C., Lettera Einaudi, 5 ottobre 1954. La lettera non è stata archiviata ed è conservata nei documenti personali di Claudi. 148 Ivi. 149 Ivi. 150 Diario 1954 lug., p. 29._ **Gabriele Codoni** , _Claudio Claudi: un episodio sconosciuto di umanesimo nel secolo breve. Biografia intellettuale, introduzione critica ed edizione filologica di Realtà e valore_ , Tesi di dottorato, Università degli Studi Urbino Carlo Bo, anno accademico 2017-2018 […] E’ significativo lo scambio di lettere che intercorre tra Elsa Morante, Luciano Foà e il redattore della casa editrice Einaudi, Bruno Fonzi (che stava curando la pubblicazione dell’ _Isola di Arturo_), a proposito degli spazi bianchi da lasciare nel testo. Il 15 novembre 1956, la scrittrice «riscrive» a Luciano Foà «i particolari» sui quali era già stato preso un accordo verbale: “Ciascuno degli otto lunghi Capitoli richiede un occhiello (mi sembra che si chiami così la pagina bianca con l’indicazione del Cap. e il titolo nel centro). Essendo ognuno degli otto Capitoli principali suddiviso in numerosi Capitoli più brevi, fra la chiusa di ciascuno di questi e il titolo del successivo si richiede uno Spazio di circa un terzo di pagina. Le suddivisioni interne che talvolta si trovano nei Capitoli brevi (e che da me sul testo sono indicate con delle lineette) richiedono, fra l’una e l’altra, uno Spazio minore, possibilmente segnato da qualche asterisco o simili. Scusami se insisto su questi particolari, ma lo faccio perché, nel mio testo, queste indicazioni prendono un valore non solo tipografico, ma anche poetico. Riguardo ai caratteri, quelli su cui già ci trovammo d’accordo (usati per il romanzo supercorallo di Natalia), mi sembrano i migliori per questo romanzo”. Il 19 novembre, Bruno Fonzi risponde alla Morante che sarebbe stato meglio fare incominciare «sempre a pagina nuova» i capitoli «più brevi entro i capitoli principali», piuttosto di «lasciare uno spazio di un terzo di pagina, che è molto brutto», tenendo conto del fatto che «all’interno di questi capitoli brevi ci sono già altre divisioni con spazio bianco». La reazione della scrittrice è molto netta: “Non è possibile […] la modifica da Lei proposta riguardo agli spazi fra i Capitoli brevi. Il fatto è che questi spazi, così come io li ho indicati sul testo dattiloscritto, rispondono, nel mio racconto, a un determinato ritmo narrativo: per il quale ognuno dei capitoli principali – divisi da occhiello -, serba, attraverso le pause fra i capitoli brevi, una sua continuità di azione. E’ necessario, perciò, mantenere fra i successivi capitoli brevi, questi spazi sulla stessa pagina; li si potrà, magari, ridurre a un poco meno di quel terzo di pagina che si era deciso, se Leo lo giudica necessario per l’estetica tipografica”. **Alberto Cadioli** , _Le diverse carte. Osservazioni sull’intermediazione editoriale e la trasmissione del testo in età contemporanea_ , Bollettino di italianistica, 1/2006, gennaio-giugno I primi romanzi di Roberto Roversi e di Fulvio Tomizza, apparsi nella «Medusa degli italiani» diretta da Gallo (e a lui attribuiti nella tabella 1) transitarono per esempio in Mondadori a seguito della chiusura dei «Gettoni» di Vittorini, che aveva già selezionato quei libri per la sua collana. Fu invece Vittorini a pubblicare nel 1951, come primo numero dei «Gettoni», l’opera prima di Franco Lucentini, _I compagni sconosciuti_ , ma avvalendosi, come era sua abitudine, della consulenza di numerosi colleghi, tra i quali ebbe un ruolo decisivo lo scrittore e traduttore Bruno Fonzi. Lucentini stesso, in una lettera al fratello, restituisce il sapore del lavoro di squadra, plurale e litigioso: «Mi hanno detto Fonzi e Pavese che i racconti sono molto piaciuti: Pare che al meeting editoriale con Einaudi, tutti, Ginzburg, Fonzi e Pavese, ne abbiano fatte lodi così alte che Einaudi, pur non avendolo letto, si è ribellato e ha detto che loro tre capiranno l’estetica ma non l’editoria, e che una breve raccolta di racconti, in quanto breve e soprattutto di racconti, non ha ragione di essere pubblicata. Ma non è finita lì perché adesso Einaudi leggerà i racconti lui stesso e loro scommettono che cambierà idea. Perché insomma, dice la Ginzburg, “gli dovranno piacere”». **Mariarosa Bricchi** , _L’età del benessere_ in I romanzi degli altri: scrittori-editori, editori-scrittori, Atlante della letteratura italiana 3, Einaudi, 2012 FacebookXLinkedInTelegramWhatsAppStampa
adrianomaini.altervista.org
December 26, 2025 at 10:17 AM
La morte di un grande sindaco di Roma collasgarba2.altervista.org/la…
La morte di un grande sindaco di Roma
l’Unità, sabato 10 ottobre 1981 A pesare sui progetti di rinnovamento della capitale promossi dal Pci giunge improvvisa la morte di Petroselli, il 7 ottobre 1981. Perno del rinnovamento di una federazione romana del Pci «restia al nuovo che veniva dalle esperienze degli anni ‘70» e «subalterna ai vertici nazionali», accade che dalla sua prematura scomparsa si sprigioni una sincera e trasversale emozione. Il saluto che la folla tributa al sindaco «caduto sul lavoro» è imponente (al funerale accorrono 50.000 persone) e il «grande addio di Roma a un grande sindaco» <675 celebra uno dei momenti-cardine della liturgia comunista, le cui radici affondano nella impressionante mobilitazione in occasione dei funerali di Togliatti, come meccanismo di coinvolgimento collettivo. Paolo Bufalini ne coglie il senso: «dopo i funerali di Togliatti, nulla abbiamo visto di paragonabile all’ondata di dolore e rimpianto per la repentina morte del compagno Luigi Petroselli, sindaco di Roma» <676. Risulta dunque evidente quel nesso inscindibile «stabilitosi nel corso dell’età contemporanea, seppur con accenti diversi, tra la morte, il rito funebre e l’affermazione di un sentimento di appartenenza politica, veicolo principale di quella sacralizzazione della politica che nella tradizione socialista si accentua sensibilmente con la Rivoluzione d’ottobre» <677. Il coro di voci che sottolineano le qualità del sindaco è unanime e Andreotti ne esalta «la dirittura morale e l’intima coerenza» <678. Petroselli riesce a coagulare attorno ad un instancabile lavoro ed una specchiata figura consensi larghi, anticipando la grande commozione che tre anni dopo avrebbe salutato la morte “sul campo” di Berlinguer, restituendoci l’immagine di una militanza devota <679. Sarà lo stesso Berlinguer a redigere l’epitaffio sulle colonne de «l’Unità», rimarcando il valore umano dell’ex sindaco in una rappresentazione che colloca il nuovo anno zero della vita di Roma nella vittoria del Pci. Il contributo di Petroselli nel rinnovamento dei comunisti romani è fondamentale, con: “[…] il segno dell’efficienza contro mille difficoltà e con il gravame di un’eredità disastrosa, il segno del rigore contro mille lassismi, della fantasia contro burocratismi stantii, della fiducia e della democrazia contro la disgregazione e l’indifferenza. Roma deve molto a Luigi Petroselli: gli deve l’inizio di una ripresa della sua vita come metropoli moderna e come degna capitale della Repubblica democratica”. <680 Gli subentra Ugo Vetere, navigato esponente comunista del consiglio comunale, già capogruppo ed assessore al bilancio. Si forma in questo modo una giunta di minoranza con 39 voti, composta da Pci, Psi e Pdup, destinata ad una grande litigiosità interna e a riflettere, nella sua parabola politica, i giochi della politica nazionale <681 e della contrapposizione fra Pci e Psi. [NOTE] 675 La narrazione su «l’Unità» offre uno spaccato interno ma toccante, dove liturgia politica ed emozioni trovano un significativo punto di saldatura: «Il funerale di Petroselli è un immenso, doloroso incontro di popolo, ma è anche un funerale «ufficiale», col suo protocollo e la sua (scarna) regia. Il cerimoniale prevede per ognuno il suo posto: prima giunta e consiglio comunale, poi autorità, poi i sindaci… Ma il cerimoniale non è stato studiato per un sindaco comunista, per uno che in mezzo ai romani ci stava come il pesce nell’acqua, e quindi per il popolo di questa città nel corteo funebre non c’è un posto assegnato». Il grande addio di Roma a un grande sindaco, in «l’Unità», 10 ottobre 1981. 676 P. Bufalini, Luigi Petroselli comunista e sindaco di Roma, in «Rinascita», XLI, 1981, p. 17. 677 M. Galfrè, «Ognuno pianga i suoi». Morti, riti funebri e lotta armata nell’Italia degli anni ’70, in «Memoria e Ricerca», LVIII, 2018, p. 337. 678 G. Andreotti, La dirittura morale e l’intima coerenza, in «Rinascita», XLI, 1981, p. 19. 679 Una parte specifica dell’identità e della ritualità dei comunisti italiani, quella della formazione, è oggetto dell’analisi approfondita di A. Tonelli, A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie (1944-1993), Roma-Bari, Laterza, 2017. 680 Il grande addio di Roma a un grande sindaco, in «l’Unità», 10 ottobre 1981. 681 Vicesindaco: Pierluigi Severi (Psi); Assessore al Bilancio: Ugo Vetere (Pci); Assessore alla Cultura: Renato Nicolini (Pci); Assessore al Traffico: Giulio Bencini (Pci); Assessore alla Sanità: Franca Prisco (Pci); Assessore alla Scuola: Roberta Pinto (Pci); Assessore alla Polizia urbana: Mirella D’Arcangeli (Pci); Assessore alle Borgate e ufficio casa: Piero Della Seta (Pci); Assessore al Centro storico: Carlo Aymonino (Pci); Assessore all’edilizia pubblica e privata: Lucio Buffa (Pci); Assessore agli affari generali e sport: Luigi Arata (Pci); Assessore al turismo: B. Rossi Doria (Pci); Assessore al Piano regolatore: Vincenzo Pietrini (Psi); Assessore ai lavori pubblici: Tullio De Felice (Psi); Assessore all’Annona: Salvatore Malerba (Psi); Assessore al Personale e decentramento: Raffaele Rotiroti (Psi); Assessore all’Avvocatura: Alberto Benzoni (Psi); Assessore alla Nettezza urbana: Celeste Angrisani (Psi). Petroselli resta sindaco di Roma coi voti del Psi, in «la Repubblica», 18 settembre 1981 **Marco Gualtieri** , _La città immaginata. Le Estati romane e la “stagione dell’effimero” (1976-1985)_ , Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2019-2020 FacebookXPinterestLinkedInWhatsAppTelegram
collasgarba2.altervista.org
December 24, 2025 at 11:37 AM
A Londra l’artista ha realizzato l’istallazione E(U)nglish Lawn adrianomaini.altervista.org/a-…
A Londra l’artista ha realizzato l’istallazione E(U)nglish Lawn
fig. 40 – Federico Seppi, E(U)nglish Lawn, 2019, juta, terra, semi, dimensioni variabili. Fonte: Francesco Fanelli, Op. cit. infra fig. 41 – Federico Seppi, Goccia, 2019, legno di abete rosso, rame ossidato e argilla rossa grezza, 150 cm, diametro: 35 cm. Fonte: Francesco Fanelli, Op. cit. infra Federico Seppi è nato a Trento il 24 settembre 1990. Nel 2009 si è diplomato presso l’Istituto d’Arte Alessandro Vittoria. Si è iscritto all’Accademia di Venezia subito dopo la maturità, effettuando un percorso accademico molto vario. Inizialmente si è iscritto a pittura, frequentando l’atelier di Carlo Di Raco; su suggerimento di quest’ultimo, al secondo anno del triennio, gli è stato consigliato di frequentare contemporaneamente il corso di “Scultura” tenuto da Roberto Pozzobon <627. Al termine del triennio, nel 2014, ottiene il diploma di Primo Livello in Pittura con Claudia Cappello, discutendo una tesi con Pozzobon come relatore. Dato l’interesse per il metodo didattico di quest’ultimo, Seppi ha scelto di proseguire gli studi iscrivendosi al biennio di Scultura, ma non dopo aver frequentato il corso di “Fine Arts” alla Cardiff Metropolitan University tra il 2015 e il 2016. Nel 2018, con la quiescenza di Pozzobon, subentrava Mario Airò come titolare di cattedra, è con quest’ultimo che Seppi avrebbe finito il proprio percorso, laureandosi nella primavera del 2020 <628. Inoltre, per la formazione tecnico-teorica dell’artista va segnalato l’incontro con diversi professori, tra cui: Aldo Grazzi, Marta Allegri, Elena Molena e Guido Cecere. Bisogna altresì ricordare l’importanza dello storico atelier di Scultura nel quale Seppi si è formato, che dal Novecento ha avuto in veste di docente artisti come Arturo Martini, Alberto Viani, Giancarlo Franco Tramontin, Roberto Pozzobon, David Marinotto e Mario Airò <629. Nel 2017 Seppi ha aperto il proprio studio (Factory Studio) a Malgolo, in Val di Non, e l’anno seguente è cominciata la sua collaborazione con la Galleria Boccanera <630. Dal 2012 ha partecipato a numerose mostre collettive in Italia <631 e all’estero (Logroño, Cardiff, Cracovia, e Londra). Fra le collettive si è scelto di segnalare la partecipazione all’evento pubblico veneziano _Artnight 2011_ ; qui Seppi è stato coinvolto dall’Accademia realizzando un happening sottoforma di installazione, caratterizzato da un’indagine sulla natura della luce. L’opera era costituita da agglomerati di ghiaccio inseriti su una rete metallica verticale, tale ricerca si incentrava sugli effetti luminosi riflessi nel ghiaccio e sul conseguente e inesorabile scioglimento materico, ciò era funzionale a fornire agli spettatori un coinvolgimento di tipo sensoriale. Inoltre, grazie all’Accademia, Seppi ha avuto modo di esporre al Magazzino del Sale n.3, all’ _Open 16_ di San Servolo del 2014 e di partecipare all’allestimento dell’opera _Respirare l’ombra_ di Giuseppe Penone, entrando in contatto con l’artista e i suoi collaboratori. Va in ultimo segnalata la partecipazione alla collettiva _Natura, Arte e Ecologia_ del 2015 svoltasi presso la Galleria Civica di Trento. Per quanto riguarda le personali bisogna citare _Icebreaker_ <632, prima mostra personale dell’artista, tenutasi alla Galleria Boccanera di Trento dal 5 marzo al 30 giugno 2021. L’esposizione ha ospitato una ventina di opere di Seppi, diverse per dimensioni e per medium; il filo conduttore della mostra riguardava l’attuale tema del ghiacciaio come «metafora dell’esistenza e della sua metamorfosi» <633. Altri dati da segnalare sulle esperienze dell’artista sono: la partecipazione ad alcuni workshop <634, svariate pubblicazioni sul suo conto, l’ottenimento di due premi, molte partecipazioni con la Boccanera ad ArtVerona e una alla fiera Artissima, un programma di residenza a Londra nel 2019, e infine, la selezione nel 2021 da parte della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma per un progetto espositivo all’interno del museo. Da un punto di vista produttivo Seppi ha realizzato performance, happening, progetti site-specific e opere scultoreo-installative di dimensioni molto diverse fra loro, ciononostante egli predilige la realizzazione di grandi opere. Invece, per l’uso dei materiali deve molto allo stile di insegnamento di Pozzobon, il quale forniva agli studenti nozioni operative sulle tecniche installative e sull’uso e il connubio di differenti _medium_. Difatti nell’opera di Seppi è centrale la ricerca su una moltitudine di materiali e le loro proprietà, tra questi si ricordano: legno, rame ossidato, alluminio, resina, foglia d’argento, vetro, ceramica, ferro, pietra, juta e molti altri. L’artista ha spesso usato anche la foglia d’argento come strato coprente di opere lignee, fornendo un effetto di camuffamento sulla natura e sulla visione del _medium_ strutturale. La poetica dell’artista si incentra sulla sperimentazione dei materiali per indagare la natura. Quest’ultima è sempre centrale nell’opera di Seppi, il quale ragiona anche sul rapporto ambiente-natura, non tralasciando le questioni ecologiche, affrontate principalmente attraverso lavori di tipo concettuale. Infatti, come accennato poc’anzi, l’artista ha affrontato (e affronta) tematiche ambientalistiche, come lo scioglimento dei ghiacciai, eseguendo ricerche sugli effetti che il tempo e il riscaldamento forniscono al ghiaccio. Durante l’azione creativa l’artista non ignora la componente performativa alla base del processo di realizzazione scultoreo o installativo <635. In molti casi i suoi lavori presentano un aspetto astratto, questo perché «L’astrazione diviene un lavoro di selezione e salvaguardia di quelle qualità formali intrinseche del materiale» <636. In occasione del suo soggiorno a Londra <637, avvenuto nel 2019, l’artista ha realizzato l’istallazione _E(U)nglish Lawn_ , esposto all’Estorick Collection of Modern Italian Art. L’opera consisteva nella giustapposizione di ventisette sacchi di juta, ciascuno con applicato il nome di uno stato europeo e riempito di terriccio e sementi provenienti dalla nazione in questione. Il lavoro era anche volto a riflettere sulla Gran Bretagna e la sua apertura alle contaminazioni culturali, anche se più in generale l’opera riguarda il concetto di diversità culturale come intrinseca ricchezza del patrimonio umano. Inoltre, l’installazione, si basava su una costante interazione col pubblico, il quale aveva il compito di innaffiare le terre, in modo che queste potessero crescere portando alla finale resa estetica all’opera (fig. 40). L’altro lavoro preso in analisi, sempre del 2019, è _Goccia_ <638, una scultura <639 con una struttura in legno di abete rosso ricoperta da uno strato di rame ossidato, il quale fornisce un colore grigio-azzurro all’opera. Come è facile evincere dal titolo il soggetto rappresentato è una goccia, che poggia su delle decorazioni concentriche realizzate con dell’argilla rossa grezza, posta sul terreno con una precisione chirurgica. L’opera ha l’intento di evocare l’effetto che le gocce causano sulla superficie dell’acqua quando cadono, perciò, attraverso la propria scultura, l’artista ha scelto di rappresentare un fenomeno fisico naturale (fig. 41). Per novembre l’artista ha in programma una mostra personale alla Galleria romana Dal Bosco + Kessler Gallery. Attualmente vive e lavora presso il proprio studio, a Malgolo. [NOTE] 627 Durante il periodo in cui Seppi ha avuto a che fare con Pozzobon non vi era un assistente d’atelier fisso, poteva anche capitare che Pozzobon facesse fare l’assistente a propri studenti. Questo tipo di scelta non era così inusuale in Accademia. 628 Presentando la tesi Materia Viva con Raffaella Miotello come relatrice. 629 È altrettanto importante sottolineare una sorta di continuità stilistico-formale nella produzione scultorea di Viani, Tramontin e Marinotto. 630 La Galleria è nata nel 2007 e oltre agli artisti di formazione accademico-veneziana già citati, Boccanera collabora con: Cristian Avram, Corrado Bonomi, Linda Carrara, Juan Carlos Ceci, Cristian Fogarolli, Dido Fontana, Daniel Gonzáles, Debora Hirsch, Tamara Janes, Walker Keith Jernigan, Michele Lombardelli, Richard Loskot, Marcus Lutyens, Vlad Nancă, Davide Quartucci, Fabio Roncato, Sebastiano Sofia e Willy Verginer. 631 Pordenone, Trento, Coredo, Venezia, Bassano, Roma e Rovereto. 632 Curata da Chiara Casarin e Giovanna Nicoletti. 633 https://www.tm-online.it/icebreaker-prima-personale-di-federico-seppi/. 634 Due dei quali svolti a Venezia, di cui uno curato da Di Raco nell’A.A. 2012-2013. 635 FEDERICO SEPPI, Materia viva, [tesi di laurea], Accademia di Belle Arti di Venezia, Venezia A.A. 2018-2019, p. 50. 636 Ivi, p. 49. 637 Scaturito dall’Art Residency – London is Open 2019, realizzato da Art Apartments in collaborazione con l’istituto di cultura finlandese The Finnish Institute a Londra e il museo Estorick Collection of Modern Italian Art. Ivi, p. 57. 638 Esposta a Palazzo Aliprandini-Laifenthun a Livo (TN). 639 Altezza 150 cm, diametro 35 cm. **Francesco Fanelli** , _L’Accademia di Venezia dagli anni Novanta ai primi anni Dieci del Duemila, rapporti con le istituzioni e analisi del lavoro di alcuni giovani diplomati_ , Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2023-2024 FacebookXLinkedInTelegramWhatsAppStampa
adrianomaini.altervista.org
December 20, 2025 at 7:28 AM
Quanto alla flora, essa ha quell’aria dottamente carceraria che è propria dei giardini botanici adrianomaini.altervista.org/qu…
Quanto alla flora, essa ha quell’aria dottamente carceraria che è propria dei giardini botanici
Lasciato a scorrazzare per i suoi mondi, Sanguineti si fa poi arcade rovesciato di una Natura tutta da ridiscutere attraverso la rivelazione della sua storicizzabilità, ossia al suo essere ugualmente Libro (e anche la scienza che se ne occupa si rivelerà, necessariamente, una storiografia <180) o anche, se ci si ricorda di stare attraversando il «secolo del montaggio» <181, nella sua facile trasformazione in materiale filmico e televisivo: è il caso del dibattito sul programma _Sud e magia_ <182 del 1978, che contiene alcune delle più belle pagine sopra la prima della grandi paronomasia sanguinetiane che incontreremo, ossia «il primitivo che è il negativo» (Magia industriale, SCR 95). Perché la vita imita l’arte, come recita il paradosso di Wilde – fonte per una volta davvero insospettabile <183, ma incontriamo anche un più prevedibile Foscolo per cui «il suo “naturel” non è quello degli altri» in _Un nostro Stendhal_ , SCR 27 – e «la geografia si trasporta al politico, e al morale» (Le parole geopolitiche, GH 82): “Bello di natura e bello d’arte […] sono due figli, in dialettico gemellaggio, delle istituzioni e della realtà sociale: insomma, sono entrambi storia. […] Dimmi quale paesaggio ti rapisce l’anima, e ti dirò a che classe appartieni […] La fine del pittoresco naturale, e il suo esito storico, è nel paesaggio quotidiano della città” (Il bello di natura, GRN 28). “La natura è vissuta in tante lingue e sottolingue diverse, popolo per popolo, gruppo sociale per gruppo sociale. Paese che vai, natura vissuta che ci trovi” (L’esperanto dei gesti, SCR 166). “Dunque ancora, inventare una forma e una pratica, attraverso moduli pertinenti, legati a uno spazio dato, in un tempo dato, lì, oggi, dentro una realtà storico-sociale. Il territorio, sì. Ma il territorio come storia, come prassi umana (Elogio del laboratorio, SCR 200)”. Dove ai più frustri proverbi – «Paese che vai…» – basta la mera sostituzione di un sinonimo per riattivarsi. Le «usanze» sono «natura vissuta». Come ha infatti scritto Sabina Stroppa in un omaggio, per Sanguineti «cose e persone, viste e pensate, formano il vivere: non i paesaggi né quello interiore – che dall’esterno riceve forma – né quello della natura» <184. Lo può attestare in prima persona l’inviato speciale <185, e il viaggiatore in generale, il Sanguineti attento a tutti quei luoghi che in letteratura sono stati da lui chiamati, con splendida immagine, «il sogno che la città provoca» <186 (ma attenzione a farsi incantare dall’immagine, perché altra letteratura essa può egualmente risolversi, come tutto del resto, in parodia <187): “Quanto alla flora, essa ha quell’aria dottamente carceraria che è propria dei giardini botanici, anche se travestiti: ma nel paese delle dighe si comprende che il paesaggio e la vegetazione siano tranquillamente sentiti come il risultato di un’ingegneria e di un’ingegnosità evidenti” <188 (Tra Händel e Dracula, GRN 169). “Un paesaggio da paesi bassissimi davvero, un po’ di colori alla Ruysdael qua e là qua e là, nelle ore giuste, giusto per gli stranieri, con qualche vacca rubata a Potter” (Blu Olanda, GRN 179). “E con tutta la scenografia intermedia della piazza teatralizzata e “arredata” veramente, lì in mezzo, con la colonna, con l’obelisco, con il monumento, con la fontana, con il giardinetto, e con tanto di fondali e di quinte […]. I nostri centri, […], sono invece, per l’appunto, “storici”. Testimonianze di un passato perduto, musei pedonali en plein aìr” (Un museo per perdoni, SCR 241). Ma anche il Sanguineti che si occupa di affari interni. Caso molto interessante è quello del terremoto del 1980, su cui si avventano con titoli e titolacci giornalisti avversari che decidono di spostare l’emergenza civile proprio sul piano letterario; quando, come visto, non c’è soluzione di continuità tra due piani in Sanguineti, il quale combatterà la stessa battaglia per quanto riguarda l’emergenza terroristica <189. Lo faranno anche artisti criticati altrove per la loro irrazionalità in pagina come in scena (pervertendo pure quel sanguinetiano concetto del «noi tutti» che vedremo a breve). Se leggibile, il Libro del Mondo è insomma storicizzabile, ossia razionalizzabile, ossia dominabile: “ _Vergogna e colpa_ _un po’ per tutti_ <190, riassume già nel titolo, meglio di ogni lungo discorso, secondo quale linea […] la «questione morale», […] rivelata dal terremoto, può venire fumosamente ricoperta e deviata da coloro che sono infinitamente più responsabili. Scriveva, infatti, Giovanni Testori: «Vergogna per noi tutti. Nessuno, di nessuna categoria sociale, di nessun partito, di nessuna fede e di nessuna ideologia può illudersi d’esser salvo». […] Quel maestoso «noi», quel «noi tutti», ritorna, puntualmente, a risolvere in una insolubile colpa collettiva […] quelle responsabilità precise che attendono di essere giudicate e, proprio, accuratamente distribuite e calcolate. Per Testori, è ovvio, terremoto aiutando, «sinistra e destra» sono soltanto «parole» <191. […]. Si capisce che, due giorni dopo, sul medesimo «Corriere», al «cambio della guardia » reclamato dal Partito Comunista, Leo Valiani, invocando _Una unità nazionale senza spirito di parte_ <192 […]. Parlavo di De Amicis, la settimana scorsa <193. Questa volta è Giorgio Bocca che, a proposito del terremoto, lo riesuma positivamente […] <194. È orgoglioso, e posso capirlo, del fatto che un suo figlio sia partito per Avellino, con le squadre di soccorso. Ma gli è «passata per l’anima una reminiscenza da padre fiero di un figlio virtuoso incontrato, negli anni verdi, nel _Cuore_ ». Qui lo capisco meno” (Scribilli [2 dicembre 1980], GH 183-184) “Già il 1755 del terremoto di Lisbona aveva segnato una svolta, e non soltanto grazie a Voltaire, nel pensiero europeo. E un segno rilevante, allora, che il nostro terremoto, in questi giorni, sia vissuto come naturalmente «irresistibile», sì, ma come socialmente resistibile, resistibilissimo, se soltanto la classe dominante, da noi, fosse ancora capace di dominare razionalmente la natura e il caso, di prevenire organizzativamente le forze non dominabili” (Diabolus Vetus, GH 188). Per quanto anche l’eccesso di dominio possa portare, complice il tempo, a un’illusione di “naturalezza”: “Ma la democratica Industria Culturale deve e può risolversi in una cultura adeguata ai risultati industriali oggi conseguiti, scientificamente e tecnologicamente, scartando nettamente ogni pulsione nostalgica verso forme formative e informative che a molti appaiono più affabili e più umane, semplicemente perché meglio dominate, addomesticate da più lunga e sicura fruizione, ridotte dall’esperienza, per così dire, da Storia a Natura, ma proprio per questo, in ultima istanza, radicate in una visione conservatrice e subalterna del divenire sociale» ” (Cultura industriale e industria culturale, GZZ 61). Ne consegue che il critico letterario sa bene come ogni volume fornisca quella geografia preferenziale che corrisponde alla propria selezione del reale: con civetteria, lo stesso critico è capace di proporre una delle sue tante _storie da scrivere_ da riassumere, guarda caso, sotto il titolo «Ideologia e Geografia» (Flaiano al cinema, SCR 155). Tale ricerca potrebbe sviscerare quegli episodi di «turismo romanzesco» che colorano di esotismo il tempo come lo spazio: “Agisce, ed è primario impulso, una bovaristica spinta verso epoche esoticamente risentite come pittorescamente vitali […] in una qualche regione della storia. […] Il Portinari <195 dice di leggere _Zagranella_ nella «Biblioteca Universale Sonzogno», numero 110196 […]. Forse il Bazzoni ha sconvolto poche teste, e non ha grandi meriti di turismo romanzesco. Ma il numero 108 dell’«Universale Sonzogno» è la _Caccia alle bestie feroci_ <197 dell’Arago, con cui si compie il salto definitivo. […] L’India non è amabile per Calcutta e per l’Himalaja, le foreste aromatiche, le piantagioni gigantesche, i fiumi pieni di maestà, e nemmeno per le bajadere compiacenti […]. L’India è amabile per le tigri, i leoni, l’uragano, il tetano, il colera, che decimano le popolazioni, spopolano le città” (Le parabole del Bazzoni, GRS 54-55). “La geografia è tutta datata, e fa tenerezza: Cascate del Niagara, Polo Nord, Gulf Stream, Mare dei Sargassi […]. Il tempo è il 2003 […] fabbricato a mano con elementare e ingenua proiezione, in gigantografia, sopra il 1907 di partenza” (Raffreddare gli anarchici, GRS 99). Al «Mondo come Cliché» <198 – di cui abbiamo appena avuto un esempio nel 2003-1907 appena visto: dove il mondo _sarà_ sempre il mondo, senza alcuna oggettività nella previsione: insomma, sempre _il potere all’immaginazione_ – va dunque ad affiancarsi un’altra degenerazione del Mondo come Libro, se «il Mondo è una Guida Turistica» (Blu Olanda, GRN 177) e «un Bignami» e se la «Guida Blu e la Michelin» (Ivi, 178) agiscono «trasformando il mondo». E se l’Italia è quella non solo letterariamente bassaniana di Italia Nostra <199 (ancora da parodizzare in un titolo di poesia futuro <200): “La tutela del paesaggio è […] alla sola contemplazione di lusso, arcaicamente preindustriale […] Dove si vede che non tutta la guerra contro la speculazione edilizia e profitti similarmente inquietanti ha basi correttamente progressive. […] Con tutta la bontà accertata delle argomentazioni ecologiche d’oggi, esiste certamente una forte dose di razionalizzazione parascientifica, intesa a coprire gli impulsi non sempre confessabili di base: il sogno di un mondo organizzato come parco nazionale o museo naturale, magari all’insegna di «Italia Nostra» […]. Le bellezze del buon tempo antico possono salvarsi, ove si desideri, a condizione di opportuno recintamento sotto vetro […] al modo di reliquie memoriali, e insomma, per dire tutto, come illustri e venerabili rovine” (Il bello di natura, GRN 27). [NOTE] 180 «Esiste la possibilità, nell’ambito delle scienze naturali, di conservarne un insegnamento che non possegga una dimensione storica come dimensione dominante?» chiede infatti al suo anonimo intervistatore Sanguineti in Nella mischia, GRS 91. Ma più avanti si arriverà anche a chiedere: «È possibile, oggi, una filosofia della storia? È possibile, dirò meglio, oggi, una filosofia, che non sia una filosofia della storia?» (Diabolus Vetus, GH 187). Cfr. anche Scienza e realismo, SCR 18-19: «Non so, infatti, se la “storia della natura” si presenti, al ricercatore scientifico, come mero modello utopico, […]: ma so per certo che, al ricercatore storico, nelle “scienze umane”, come modello utopico dominante, ossia proprio delle classi dominanti, viene suggerito, e in qualche modo imposto, quello […] della “natura della storia” […]. La scelta ideologica di base, in fondo, è tutta qui: naturalità della storia o storicità della natura». 181 Cfr. supra, p. 22. 182 Per cui rimandiamo al VIII dell’Indice dei dibattiti. 183 Cfr. OSCAR WILDE, The Decay of Lying – An Observation, in IDEM, Intentions, Osgood McIlvaine & Co, London 1891; Sanguineti ritorna tre volte su esso nel Giornalino: per cui cfr. Ercole simbionte, GRN 17; Il bello di natura, GRN 26; Nudità punitiva, GRN 153. Cfr. anche, senza citazione diretta della fonte, L’ebbrezza e la cuccagna, GRS 257, I modelli eterodiretti, SCR 66; Flaiano al cinema, SCR 156 e Eroi dell’intelletto, SCR 170. 184 SABINA STROPPA, Sanguineti, o del ritmo, in Album Sanguineti, cit., pp. 185-191, in particolare p. 190. 185 Cfr. in particolare le corrispondenze dall’Olanda (paese, tra l’altro, che prima dell’Italia ha voluto mettere in scena le Storie naturali) in Tra Händel e Dracula; 700, 400, 125; Adam in A’dam e Blu Olanda uscite su «Paese Sera» e il «Giorno» dal 22 maggio al 14 giugno 1975. 186 Cfr. EDOARDO SANGUINETI, Andare al passo nel parco, in IDEM, Ideologia e linguaggio, cit., pp. 157-161, in particolare p. 157, dove il parco è anche «museo» (Ivi, p. 159) «biblioteca» e «possibile […] genere letterario» (Ivi, p.158). 187 Cfr. almeno «quella parodia di natura che è il Jardin du Luxembourg, presso Nerval» (Il bello di natura, GRN 28). 188 Non solo nella cartina fisica, ma anche in quella politica, per cui il paesaggio urbano olandese è davvero retto alla radice dalla storia: «Una città, in questa nazione […] è un ente giuridico, storicamente garantito, e si definisce, con databili certezze, a partire dal giorno in cui si diploma come urbs. A metropoli può toccare di sopravvivere oggi ancora, per inavvertenza storica, come un modesto pagus» (700, 400, 125, GRN 172). 189 Cfr. La vita buona, in cui si risponde a CLAUDIO MAGRIS, Con i versi di Dante non si vince il terrorismo, in «Corriere della Sera», 7 agosto 1981, p. 1. 190 Cfr. GIOVANNI TESTORI, Vergogna e colpa un po’ per tutti, in «Corriere della Sera», 26 novembre 1980, p. 2. 191 Davvero niente di più antisanguinetiano. Si veda almeno la risposta di Sanguineti all’inchiesta Qua la Destra!, dice Stalin a Nietzsche, a cura di RITA TRIPODI, in «l’Espresso», XXV, 25, 24 giugno 1979, pp. 66-76 (per la lista degli intervenuti rimandiamo alla catalogazione Articoli di Sinistra e destra non sono «aggettivi» [353]), il successivo Trasformazione e trasformismo che riflette sulle altre risposte, e Una citazione,, GZZ 232-233: «Sono uno di quei tipi […] che quando usa il termine «borghese» non lo mette tra virgolette, a meno che il senso non lo esiga. Sono di quelli, insomma, ostinati, che credono che «borghesia» e «proletariato», con alquanti altri importanti vocaboli, che adesso esigono le virgolette soltanto perché vogliono essere rilevati come concetti (dico «capitalismo», poniamo, «imperialismo», «forza-lavoro», ecc. ecc.), non siano affatto poveri flatus vocis e nomi vani, ma enti piuttosto consistenti, e categorie storiche alquanto determinate e concrete». 192 Cfr. LEO VALIANI, Una unità nazionale senza spirito di parte, in «Corriere della Sera», 28 novembre 1980, p. 1. 193 Cfr. Scribilli [26 novembre 1980]. 194 Cfr. GIORGIO BOCCA, Il terremoto, in «la Repubblica», 26 novembre 1980, p. 6. 195 Cfr. FOLCO PORTINARI, Le parabole del reale. Romanzi italiani dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1976. 196 GIAMBATTISTA BAZZONI, Zagranella, o una pitocca del 1500, Sonzogno, Milano 1884. 197 GIACOMO ARAGO, Caccia alle bestie feroci, Sonzogno, Milano 1884. Si noti nuovamente, in questi due ultimi esempi, l’importanza del «discorso di collana» (su cui cfr. la nota precedente). 198 Cfr. supra, p. 35. Si veda sempre la «retrofantascienza» di Salgari per cui si appongono naturalistiche «glosse opportune, inevitabilmente condite dai «come si sa» e dai «come ognuno sa». così, il giovinetto, ad un tempo, apprendesi le utili nozioni essenziali, e apprende ancora che già avrebbe dovuto apprenderle da sempre» (Raffreddare gli anarchici, GRS 99). 199 Per altre frecciate sanguinetiane (di nuovo a breve distanza) all’organizzazione fondata e in quegli anni diretta dallo storico avversario cfr. Il super-kitsch costante, GRN 132; Usate sistema Baudelaire, GRN 161. Cfr. anche Il «vaudeville» tragico, GRS 312. A lato: una sanguinetiana storia da scrivere di quelle che analizzeremo nel terzo capitolo potrebbe ben concentrarsi sul dato necrofilo della natura bassaniana, dal Lazio-necropoli dei Finzi-Contini all’epifania negativa in vetrina de L’airone. 200 Cfr. EDOARDO SANGUINETI, Italia nostra, in IDEM, Il gatto lupesco, cit., pp. 225-226. **Dario Gattiglia** , «In compendiosa forma di contratto mugugno». Giornalini, scribilli, ghirigori, gazzettini e altre piccole tattiche quotidiane, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2023-2024 Share:
adrianomaini.altervista.org
December 14, 2025 at 10:53 AM
Partigiane in Carnia
Come già detto in precedenza, la Liberazione della Carnia e dell’alto Friuli non fu un evento istantaneo ma un processo lungo e travagliato e dal momento in cui i partigiani controllavano tutto il territorio della zona libera ci volle almeno un mese per concretizzare i primi significativi risultati della nuova riorganizzazione amministrativa e politica. Le donne si trovavano divise tra il carico lavorativo di mantenere efficiente l’economia di sussistenza familiare, gli incarichi e il supporto alla resistenza e l’assunzione dei ruoli negli organismi associativi che i mariti occupavano in un continuo e repentino aumento di carico di lavoro e responsabilità. Il responsabile della Federazione comunista di Udine in una corrispondenza a Gino Beltrame, rappresentante del partito in Carnia, si dice felice del voto consentito anche alle donne: “Avete fatto molto bene a rompere il sistema di far votare soltanto i capifamiglia. Tutta la popolazione bisogna far intervenire e soprattutto tutta la gioventù, tutte le donne. Quello è un sistema antidemocratico, un sistema patriarcale in decadenza, un sistema che chiude le porte alla gioventù e alle donne. Un sistema che può andar bene al massimo per certi strati conservatori dei partiti nostri amici”. (Fragiacomo, 2013) Una delle grandi novità politiche della Repubblica partigiana della Carnia rispetto la tradizionale organizzazione dell’amministrazione locale fu la legittimazione e l’introduzione sempre più capillare degli organismi di massa, che portavano giovani, donne, operai e contadini a interfacciarsi ufficialmente sul piano politico. L’immaturità dei tempi e l’urgenza di altri problemi per qualcuno giustificherà la decisione per cui questi rappresentanti poterono votare solamente le questioni che li riguardavano strettamente. (Fragiacomo, 2013) Personalmente sottolineerei il fatto che non ci furono grandi o forti opposizioni alla decisione di far votare le donne in qualità di capofamiglia; la popolazione, anzi, fu la prima ad essere unitamente favorevole, forse in quanto le donne in Carnia hanno sempre ricoperto, di fatto, dei ruoli fondamentali nella società e nella vita pubblica, in quella di chiesa e via dicendo. **Fine dell’esperienza democratica** L’ amministrazione della Zona libera della Carnia fu pienamente operativa solo dal 26 settembre al 10 ottobre ma rappresentò una straordinaria esperienza di cittadinanza attiva, espressione, senso di comunità e del dovere animata da entusiasmo per la libertà e orientata al progresso e al miglioramento. (Fabbroni, 2007). Bisogna ricordare che all’epoca era impossibile per i friulani, carnici e italiani in generale conoscere perfettamente le dinamiche di quello che succedeva sul piano internazionale. In seguito allo sbarco in Normandia, il fronte italiano divenne secondario e diverse truppe vennero mandate in Francia. Il sogno dell’imminente liberazione dell’Italia svanì. In più, per la notevole presenza dei socialisti e dei comunisti il supporto alla resistenza italiana iniziò a vacillare. Il 13 novembre del 1944 fu diffuso un comunicato che invitava i partigiani a tornare a casa con l’arrivo della primavera, facendo crollare le speranze di evitare l’ennesimo inverno di guerra. Questo scatenò chiaramente rabbia, frustrazione e risentimento dei partigiani. Nella memoria di Cecilia Deganutti “Rita”, partigiana osovana: “È stato quello che ha creato il panico intorno a noi. Tornate a casa, aspettate la primavera. Avevamo con noi russi, indiani, meridionali. Come facevamo a tornare a casa? E anche la gente (i fascisti avevano appeso il proclama nelle chiese): perché state qua? Andate a casa! Io, tra l’altro, non ce l’avevo più una casa.” (Fabbroni, 2007)” Anche i rapporti con le famiglie locali non sono mai stati semplici o scontati, alcune erano più propense e disponibili ad accogliere i partigiani, altri temendo per la propria sicurezza opponevano resistenza ma spesso poi, cedevano, lasciando uno spazio di fortuna ai partigiani, almeno per un breve tempo. L’arrivo in Friuli di 17000 cosacchi costituì un ulteriore minaccia in particolare per donne e ragazze. Erano collaborazionisti russi dalle terre del Don, che a carovane con donne, vecchi e bambini venivano a stabilirsi nella loro terra promessa: la Carnia doveva diventare “Kosakenland in nord Italien”. Seguì un aggravarsi di violenze e soprusi, sia dai cosacchi verso la popolazione, sia da parte dei tedeschi che con feroci rastrellamenti rioccupavano e riprendevano il controllo delle zone libere. L’arrivo dei cosacchi coincise con un ulteriore escalation delle violenze di genere: si registrarono innumerevoli casi di stupri nei confronti della popolazione carnica femminile. (Fragiacomo, 2007). I tedeschi si aspettavano di venire subito affiancati da truppe cosacche pronte al combattimento, quando in realtà la poca organizzazione del trasporto, l’equipaggiamento scarso e la grande presenza di civili posticiparono la partecipazione all’offensiva tedesca dei cosacchi. Ci vollero settimane prima che questi ultimi prendessero parte ai rastrellamenti, a cui seguì l’occupazione del territorio. Dall’autunno, tedeschi e cosacchi seminarono un clima di terrore provocando vittime, feriti, arresti. Molteplici furono stupri, violenze e furti, incendi e saccheggi con ingenti danni a riserve alimentari e di sostentamento. (Verardo, 2024). I rastrellamenti tedeschi partirono dalla zona libera orientale. I treni per le deportazioni in Germania erano pronti a partire carichi di prigionieri. Ai primi di ottobre toccò alla zona libera della Carnia e dell’alto Friuli: l’8 dicembre, i tedeschi avevano rioccupato tutti i territori. Non bastò la “settimana di lotta”, ci impiegarono due mesi. I pochi partigiani rimasti sulle montagne friulane trovarono ancora una volta il supporto di ragazze e donne nei paesi, grazie a loro molti sfuggirono ai rastrellamenti e ai cosacchi che sicuramente erano i predatori più agguerriti in sella ai loro cavalli nel freddo inverno. L’ennesimo inverno di guerra fu tragico. Nell’attuale comune di Forni Avoltri, “Gianna” si occupava dei feriti e tentava di curarli come poteva al freddo e mai all’asciutto. Le ferite si riaprivano continuamente e se arrivava qualche medicinale dall’ospedale di Gemona o Spilimbergo era merito delle staffette. Con la neve e senza la protezione delle chiome degli alberi, muoversi diventava ancora più pericoloso oltre che difficile per chiunque. Per quanto si poteva, si affidavano i feriti meno gravi alla cura delle donne del posto. (Fabbroni, 2007) Elsa Fanzutti, “Vera”, era infermiera all’ospedale partigiano di Ampezzo, quando venne spostato in una piccola frazione in vista dell’attacco di ottobre e poi chiuso. I feriti meno gravi furono smistati nelle case della zona, di quelli più gravi se ne occupò direttamente “Vera” a Casera Vancjarèt a 1392m. Ogni due o tre giorni scendeva a valle fino in paese per recuperare i beni di prima necessità che la madre le faceva arrivare dalla pianura. In 20 giorni le condizioni dei partigiani migliorarono e li accompagnò in un lungo e impervio viaggio invernale fino alla pianura, dove ognuno poi riuscì a tornare alla propria casa. (Fabbroni, 2007) Si aspettava la primavera, per la lotta finale. Intanto, per tutto l’inverno si preservarono le connessioni e i contatti con la pianura, mantenendo in circolo viveri, medicinali, indumenti e notizie. Da Udine, in quel periodo, partirono più della metà dei deportati complessivi. Anche la questione delle deportazioni rimane peculiare e specifica per quando riguarda il genere femminile. Le deportazioni femminili in Germania potevano caratterizzarsi da due motivazioni principali: molte, attiviste e partigiane, sostenitrici della resistenza o arbitrariamente ritenute tali, vennero catturate e deportate in Germania nei campi di concentramento per punizione e per essere sovversive e aver agito contro il regime; per molte altre invece, la cattura e la deportazione in una Germania straziata dalla lunga guerra, fu principalmente indotta dalle caratteristiche di essere giovani, forti e resistenti in grado di dare grande resa lavorativa: molte giovani carniche vennero portate in Germania nei campi di lavoro, poiché ai tedeschi mancava la manodopera in quanto tutti gli uomini erano in guerra. Come per chiunque, quell’inverno fu critico anche per le partigiane. Perse la vita “Paola”, nella zona di Tramonti di Sotto, che scelse fino all’ultimo di non abbandonare i partigiani; alla sua memoria fu conferita la medaglia d’argento. Virginia Tonelli, fondatrice dei gruppi di difesa, venne catturata e portata nella risiera di San Sabba. Non ci fu nessuna ritorsione per i partigiani, prova che “Luisa” rimase leale fino alla sua morte. Una lapide in suo ricordo recita così: “in memoria di coloro che non si piegarono/ e di Virginia Tonelli “Luisa” / che quando la terra era sotto i piedi nazista e fascista/ oscura parlò, convinse, lottò/. Catturata trasformò in silenzio l’odio del popolo/ e in silenzio morì alla Risiera di San Sabba/ O tu che passi per il tuo pacifico lavoro / ricordati di ricordare.” (Fabbroni, 2007) A dicembre fu arrestata “Giulia”, su probabili informazioni ottenute da un prigioniero portato a Dachau. Ammise orgogliosa la sua appartenenza alla resistenza ma non svelò mai alcuna informazione sull’organizzazione. Fu deportata al lager di Rawensbruck, il lager delle donne, da cui riuscì a fare ritorno nell’autunno del 1945. (Fabbroni, 2007) Infine, si unirono le crudeltà indegne delle torture dal plotone del centro di repressione della Caserma “Piave” di Palmanova. Oltre 500 partigiani furono vittime delle loro esecuzioni e terribili soprusi. Tra i torturatori di questa temibile compagine, c’erano anche delle donne che si prestavano senza indugio a picchiare le partigiane e i partigiani. (Fabbroni, 2007) Nel frattempo, i carnici avevano imparato a vivere coi cosacchi, una convivenza che trovò una sorta di equilibrio, forse perché in fondo questi due popoli di emigranti e contadini avevano qualcosa da condividere. A fine gennaio, riprese la riorganizzazione dei reparti. A marzo due importanti vertici della formazione Osoppo vennero catturati e arrestati in seguito a un blitz tedesco; ottenuti dei moduli di scarcerazione, questa volta toccò a una studentessa delle Magistrali di Udine farsi passare da segretaria della SD e recapitare i moduli ai diretti interessati in carcere. Non era in realtà nemmeno partigiana, accettò l’incarico di Don Emilio Roja solo per la sua caratteristica “incoscienza e l’indole avventurosa” di ragazza. (Fabbroni, 2007) **Cecilia Casanova** , _TESTIMONIANZE DELL’ATTIVITA’ POLITICA E DELL’ESPERIENZA FEMMINILE NELLA RESISTENZA FRIULANA. Dalle origini alla Repubblica partigiana della Carnia_ , Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2024-2025 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
December 12, 2025 at 2:42 PM
L’esercito volontario della Resistenza che si forma e si aggrega in montagna non è scisso dai gruppi clandestini che si organizzano in città adrianomaini.altervista.org/le…
L’esercito volontario della Resistenza che si forma e si aggrega in montagna non è scisso dai gruppi clandestini che si organizzano in città
I romanzi e i racconti della Resistenza sono tutti ambientati nel paesaggio storico in cui si la Resistenza si è effettivamente svolta: le Alpi e L’Appennino, le case dei contadini e gli accampamenti militari, gli spazi in cui si spostano e combattono i partigiani, le città occupate. Il primo dato che emerge da questa sorta di inventario topografico è che i teatri della guerriglia sono tanti e diversi. Santo Peli, nel suo saggio sulla Resistenza in Italia, ammette che per avere una visione completa di questo periodo si “dovrebbe dare conto delle differenze tra la resistenza piemontese e quella lombarda, ma anche delle diversità del movimento partigiano nelle vallate del Cuneese e nella metropoli operaia di Torino” <14. Questo indica che il legame con il territorio è fondamentale per la lotta stessa e i diversi spazi che costituiscono la geografia resistenziale tante volte determinano le differenze tra i partigiani. L’estrema varietà di questi luoghi ha delle caratteristiche che diventano simbolo di una guerra e della condizione di un popolo. Ognuno, nel suo aspetto particolare, assume un valore aggiunto alla semplice presenza sensibile, perché nella letteratura della Resistenza personaggi e territori sono inscindibili, e assumono un significato specifico soltanto de messi in relazione. Emerge nei testi il doppio livello – storico e letterario – del paesaggio, e lo studio tipologico dei suoi elementi indica la natura peculiare di una narrativa in cui la componente autobiografica è estremamente presente. Nella narrativa resistenziale il paesaggio assume significati di metafora, di immagine simbolica che scavalca l’idealizzata didascalia, si compone in un unico insieme espressivo, sintesi della qualità emotiva del soggetto e dati esterni. L’esperienza diretta, infatti, attribuisce ai luoghi una significazione supplementare rispetto alla semplice descrizione. Uno degli aspetti dell’analisi di Lotman e Uspenskij sulla tipologia della cultura evidenzia come nel sistema di trasmissione del messaggio ci siano due possibili direzioni: quella IO-EGLI, cioè quando il destinatario dell’informazione è una terza persona che non conosce il messaggio, e in questo caso avviene semplicemente un passaggio di informazioni; e quella IO-IO, cioè quando il depositario dell’informazione rimane lo stesso mentre il messaggio, nel processo comunicativo, viene riformulato e acquista un nuovo significato: “Ciò è la conseguenza del fatto che viene introdotto un secondo codice supplementare, e il messaggio di partenza è ricodificato nelle unità della sua struttura, ricevendo così i connotati di un messaggio nuovo” <15. Quando il mittente trasmette un messaggio a se stesso (canale IO-IO) si verifica, infatti, una trasformazione qualitativa dell’informazione. Poiché alla base dei romanzi presi in esame c’è un’esperienza reale vissuta nei luoghi in cui si svolge la guerra civile, il racconto di questa esperienza testimonia, tra le altre cose, un’introspezione psicologica degli scrittori che altera la realtà dei luoghi geografici, che vengono restituiti con immagini nuove, vincolate al modo di avere vissuto intimamente quel paesaggio. Gli spazi descritti assumono pertanto significati peculiari perché, infine, restituiscono al lettore un processo di elaborazione che, nella pagina scritta, crea nuovi paesaggi poetici. **La città** Una caratteristica importante della lotta partigiana è che fu “pro aris et focis”, vale a dire una guerra combattuta per la propria terra, la propria casa, a difesa della famiglia e delle proprie risorse. L’esercito volontario della Resistenza che si forma e si aggrega in montagna non è scisso dai gruppi clandestini che si organizzano in città, anche se le modalità della lotta e la natura dei combattenti sono profondamente diverse: infatti, una prima grande differenza all’interno della narrativa resistenziale è quella tra partigiani di montagna e partigiani di città. La città, luogo primo di appartenenza, improvvisamente si trasforma in uno spazio dai significati capovolti, cessa di essere dimora di affetto e protezione e diventa un luogo di diffidenza e di pericolo. Le città sottomesse alla presenza dei nazi-fascisti cambiano il loro volto, alterano la loro stessa identità, avvolte in un’atmosfera di paura, con un tempo nuovo, scandito dal coprifuoco e con uno spazio prigioniero della presenza dei militari armati che controllano il territorio. “La sera Roma precipitava nel buio più assoluto. Coprifuoco dalle otto di sera alle sei di mattina. Verso le sette pomeridiane la città era percorsa da torme di persone che cercavano di raggiungere in fretta la lontana tana famigliare: l’unico rifugio sicuro in quella giungla piena d’insidie, in cui rinchiudersi, tirando un sospiro di sollievo e sbattendo velocemente il paletto della porta dietro le proprie spalle. […] Verso le ventidue si cominciava a sentire il passo delle pattuglie tedesche e fasciste: qualche grido d’allarme, una fucilata, talvolta una raffica di mitra. Cominciava l’interminabile notte romana. La città intorno non c’era più, sparita nel buio […] Il passo cadenzato e pesante delle truppe tedesche si udiva a un chilometro di distanza. Una certa cadenzata pesantezza era la caratteristica inconfondibile del soldato tedesco” <16. Nei testi resistenziali emerge una sorta di distanza che s’instaura tra il partigiano e la città, una percezione nuova e aberrante di uno spazio un tempo familiare e sicuro. Le città occupate sembrano non essere quelle di prima, producono un effetto di straniamento e stupiscono nei loro aspetti più naturali. Pietro Chiodi descrive questo cambio di prospettiva più volte nel suo diario. Il 21 settembre annota: “Mi sono fermato a lungo davanti ad un locale di lusso ad osservare il via vai. Mi dava un senso di stordimento vedere uomini che non fossero internati o SS. Ero nell’ombra e rimasi a lungo ad osservare come gli uomini accompagnassero a casa una donna o le accendessero una sigaretta” <17. Il 3 ottobre scrive: “verso le due siamo a Torino. Torino non è la città dove ho fatto gli studi universitari ma la città dove ci sono le ‘Nuove’” <18. La dimensione sospesa e la trasformazione quasi fisica delle città si riproduce in molti testi con descrizioni fortemente evocative ad indicare immagini nuove di qualcosa che non si riconosce più. Gli scrittori-partigiani si ritrovano a vivere in luoghi diversi da quelli di prima, quasi surreali e spaventosi. Uno degli articoli che Carlo Levi scrive per la Nazione del popolo, il quotidiano edito a Firenze dal CTLN, immediatamente dopo la Liberazione, racconta bene la sensazione di stupore nel riflettere sulla distanza che i partigiani sentivano rispetto alle proprie città. “Un’aria funesta ed eroica pareva coprire la città, sotto il cielo azzurro percorso da nuvole bianche, tra il ronzio estivo delle mosche e di un invisibile aeroplano. La guerra civile era qui, tra queste pietre familiari, tra queste case di pace quotidiana, sotto gli occhi bestiali dei verdi tedeschi che preparavano le rovine. Una città si difendeva, tutta la vita era mutata” <19. Il pathos della descrizione è forte, e Firenze prende le sembianze di un’antica Troia invasa e violentata. La stessa sensazione emerge dal testo di Asor Rosa che ricorda e riosserva Roma durante il periodo dell’occupazione. “A un certo punto le divise fasciste metamorfosarono e, da grigio-verdi quali erano state fino a quel momento sul modello della Milizia prima dell’8 settembre, diventarono rigorosamente e completamente nere, anzi, color della tenebra”. <20 Anche il primo libro sulla Resistenza, scritto da Elio Vittorini nel 1945, descrive la città in toni lirici e solenni. Il romanzo è ambientato nella Milano occupata dai tedeschi, e segue le vicende di Enne 2, intellettuale partigiano impegnato nella lotta dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica). In un brano del testo Enne 2 accompagna a casa l’amata Berta, e attraversa in bicicletta una città devastata dall’occupazione: “Andarono un pezzo per morte strade; di dentro Porta Romana verso la cerchia dei Navigli, e poi sulla cerchia dei Navigli, verso San Lorenzo, verso Sant’Ambrogio, verso le Grazie, sempre per morte strade, tra case distrutte, nel sole di foglie morte dell’inverno” <21. È l’immagine di una Milano distrutta, uccisa da una guerra civile assurda e necessaria. E’ questo carattere di necessità che si afferma in Italia in questo momento storico, ed è sottolineato nell’articolo di Carlo Levi che riflette sulla guerriglia di città, quella organizzata nei GAP, che attraverso azioni di sabotaggio e attentati a strade, ferrovie, arsenali, aeroporti, cerca di minare la stabilità militare e politica dei fascisti. Scrive Levi: “Firenze aveva dovuto inventare la guerra partigiana, la guerra di città, i Comitati di Liberazione come organi di governo. Erano scoperte nate con il carattere delle cose necessarie” <22. I Partigiani di città cercano quindi di sopportare quei mesi d’occupazione nascosti e attenti, consapevoli di dover gestire una guerra sotterranea che non sarebbe mai potuta diventare frontale. Un esempio dell’organizzazione antifascista cittadina si trova nei racconti di Romano Bilenchi. L’autore descrive la presenza rapace dell’esercito occupante in città: “I fascisti e i nazisti saccheggiavano i bar e i caffè”, oppure “entravano nelle ville lungo il Mugnone, sparavano dalle finestre oltre il fiume, gettavano fuori quello che trovavano, soprattutto stoviglie […] Quando si erano sfogati se ne stavano calmi per qualche giorno” <23. In generale, Firenze viene descritta come invasa da una presenza prepotente e indifferente, che s’incontra ad ogni angolo di strada. Nell’”Attentato”, ambientato in una città che pullula di militari tedeschi e fascisti, si legge: “Nel pomeriggio il caffè Paszkowski si riempiva di ufficiali tedeschi di ogni arma e di ogni grado” <24. Il protagonista descrive le operazioni quotidiane dell’organizzazione clandestina del PCI, l’utilizzo di tutti i mezzi possibili per osteggiare l’esercito occupante: “Tenevamo molto aggiornato, per mezzo dei cronisti che visitavano la questura, la prefettura, i commissariati, le caserme dei carabinieri, i pompieri e gli ospedali, un quadro completo di ciò che accadeva in città, dai delitti compiuti dai nazisti e dai fascisti fino ai loro più piccoli furti nelle case, nei bar, nei negozi. Se in una strada la popolazione s’era opposta ai fascisti lo sapevamo dopo poco tempo, e avvisati da una nostra staffetta […] uno o due compagni giungevano sul posto con un pacco di manifestini che incitavano alla lotta” <25. Le modalità di questa lotta sono queste: attesa e ombra, una guerra basata su depistaggi, sul controllo degli spostamenti nemici e sulle informazioni rubate. Pratolini concentra in un breve racconto il carattere silenzioso di questa guerra combattuta senza armi quando descrive “gli assurdi guerrieri, il cui successo, entro il cerchio di una leggenda paesana, consistè tutto nel riuscire a mantenere il mistero, l’incubo della loro sterminata, silenziosa presenza. Finchè era maggio, venne sempre meno di lontano, come portato dalla brezza del Tevere, dalle colline, il rombo del cannone, lontanissimo ancora tuttavia, che invece di incoraggiarli, giorno dopo giorno, li irritava” <26. [NOTE] 14 S. Peli, La Resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2004, p. 11 15 J. M. Lotman e B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 2001, p. 113 16 A. A. Rosa, L’alba di un mondo nuovo, Einaudi, Torino 2002, p. 228-229 17 P. Chiodi, Banditi, Einaudi, Torino 2002, p. 81 18 Ivi, p. 95. “Le Nuove” sono il carcere giudiziario di Torino, costruito sotto il regno di Vittorio Emanuele II°, tra il 1857 e il 1869. Durante il ventennio fascista e successivamente durante l’occupazione sono stati prigionieri delle “Nuove”: oppositori al regime, partigiani, ebrei, deportati. Negli anni ’80 “Le Nuove” vengono sostituite dal “carcere delle Vallette”. 19 C. Levi, La strana idea di battersi per la libertà, Spartaco, Caserta 2005, p. 151 20 A. Asor Rosa, L’alba di un mondo nuovo, cit. p. 227 21 E. Vittorini, Uomini e no, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2003, p. 133 22 C. Levi, La strana idea di battersi per la libertà, cit., p. 153 23 R. Bilenchi, I tedeschi, in Racconti della Resistenza, cit., note pp. 290-293 24 R. Bilenchi, L’attentato, in Racconti della Resistenza, cit., p. 277 25 Ivi, pp. 278-279 26 V. Pratolini, La primula rossa alla tomba di Nerone, in Racconti della Resistenza, cit. p. 331 **Anna Voltaggio** , _Spazi partigiani: il paesaggio letterario nella narrativa della Resistenza italiana_ , Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2006-2007 Share:
adrianomaini.altervista.org
December 9, 2025 at 1:22 PM
scordare il buio freddo / del bosco che assedia la casa adrianomaini.altervista.org/sc…
scordare il buio freddo / del bosco che assedia la casa
_Neologismi._ Il numero di neologismi [nella poesia di Jolanda Insana] realizzati tramite processi di suffissazione è ridotto. I due più interessanti sostantivi «astratti per grammatica, ma concretissimi nella sostanza» (Turchetta 2003 in Insana 2007, 603) sono scribacchieria (p. 423) e dentisterìa (p. 427). Il primo caso rientra nel processo di trasformazione di un verbo, in questo caso scribacchiare, in sostantivo. I sostantivi con suffisso -erìa rientrano nella categoria nomen agentis con valore locativo (Dardano 1978, 55); tuttavia qui sembrerebbe rientrare nella categoria nomen actionis (ivi, 43): “non possa mai né bere né mangiare / né tua scribacchieria fare / né i monconi salvare e la bocca sbilenca rabberciare (p. 423)”. Il secondo caso appartiene al processo di trasformazione all’interno della stessa categoria, ovvero il sostantivo: da dente deriva dentisterìa: “domandò ai nemici di restituire il tolto / di salute e soldi / o di lasciare la dentisterìa / e poi che si rifiutarono bandì guerra / invocando a testimonio il dio delle vendette / contro chi ha il torto (p. 427)”. Questa trasformazione ha «come risultato un nome che esprime quantità o valore collettivo» <82. Un caso interessante è l’aggettivo verdente (p. 381), che rientrerebbe nel processo di trasformazione di un verbo in un nome o aggettivo nominalizzato (cfr. Dardano 1978, 52-53). Potrebbe anche essere considerato un caso di conversione di verbi «che assumono spesso anche valore aggettivale» (D’Achille 2003, 128). Tuttavia qui l’aggettivo non deriverebbe dal verbo verdeggiare, ma da verde. Il contesto in cui è utilizzato potrebbe giustificare la scelta del suffisso -ente per ragioni rimiche e foniche: “foglia verdente / acqua corrente / porta via questo male ardente (p. 381)”. L’ultimo caso appartiene ad una categoria di neologismi molto produttiva, ovvero le trasformazioni da nome a verbo con i suffissi -are ed -ire <83. Qui il verbo intransitivo fannullare deriva dal sostantivo fannullone: “che fatica fannullare ruffolando parole (p. 400)”. Altri neologismi si riscontrano nei composti, ma in maggior numero nell’uso di prefissi separativi ed intensivi, fenomeno cospicuo in questa raccolta. _Fenomeni di composizione._ Il numero di composti è esiguo e la maggioranza è costituita da due sostantivi. In questi versi si riscontrano quattro casi in cui il determinato precede il determinante, ovvero «il secondo elemento determina cioè il significato del primo» <84: “il pescecane morto / continua a inghiottire / pesci vivi (p. 343) per troppa scarsità d’orecchio non dà risposte / e quando s’infila la calzamaglia di penitente / è uno sdiluvio di parola incrociate / di ricchezze malriposte e bruciate (p. 393) che fatica annullare ruffolando parole / e tenendo la viltà a capotavola / sicché nessuno intraprende la più piccola impresa (p. 400) brancapelo non finì di argomentare e sgomentare / che si lanciò nell’arena e corse / per allontanarsi dal rottamaio / nell’ora della pennichella (p. 410)”. Nei composti pescecane e calzamaglia, «nella frase di base non c’è la preposizione davanti al determinante» (Dardano 1978, 183) e la testa è a sinistra. Invece, nei composti capotavola e brancapelo, «nella frase di base c’è la preposizione davanti al determinante» (ibidem); anche qui la testa è a sinistra. I primi tre composti sono di uso comune; brancapelo, invece, è un neologismo. Il composto giocoforza (p. 371), invece, presenta una coordinazione dei due elementi nominali <85: “appuntamento al prossimo lunedì / e però per rifare il quadro e la cornice / è giocoforza sacrificare / fronzoli pellecchie e pellacchie / senza impanare le parole / poi che di spine e spasimi si riempì la casa grande (p. 371)”. In questo verso, si riscontra un composto costituito da aggettivo e nome, tipo poco produttivo in italiano, in cui il «nome ha la caratteristica espressa dall’aggettivo» (D’achille 2003, 135): “scordare il buio freddo / del bosco che assedia la casa / e ricordare i lampi di sole ai vetri sgorati / scordare il cipciap di commensali fintoanoressici / per ricordare la pentola della polenta (p. 351)”. Il composto fintoanoressici è il secondo caso di neologismo, in questa categoria. Un composto, invece, di uso comune ed appartenente alla categoria di composti formati dal prefisso auto- con valore avverbiale (cfr. Dardano 1978, 166), è autoflagellazione (p. 377). In questo caso il determinante precede il determinato. _L’uso dei prefissi._ Il fenomeno che presenta un lessico molto corposo all’intero della raccolta poetica è l’uso dei prefissi, principalmente di carattere privativo ed intensivo. Il prefisso s- con funzione privativa ed intensiva è produttivo di alcuni neologismi. Nel primo caso delle forme verbali parasintetiche smummiata (p. 351), scompagnata (p. 355), strippo (p. 395), smuscola (p. 431). Si riscontra anche l’infinito spavimentare (p. 377). L’espressività di questi verbi è utilizzata per indicare il dolore dell’autrice, causato dall’impossibilità di scrittura: “il dolore mi tolse i libri e fui smummiata (p. 351)”, e dalla difficoltà di comunicazione, interrotta dalle storture della lingua: “ricacciata si smuscola e affrena / e non ha cuore e si morde / tanto è diventata incerta bassa e purgata (p. 431)”. Il verbo strippare è attestato con il significato di ‘mangiare moltissimo’ oppure ‘essere sotto l’effetto di una droga’. Tuttavia in questo verso è utilizzato come sinonimo di sbuzzo, ovvero ‘privare delle viscere’: “io strippo e sbuzzo il porcospino / che vuole farsi il giaciglio nella mia tana // troppe spine fanno piumoni (p. 395)”. La forma scompagnata è utilizzata in riferimento ad un essere inanimato, ovvero una palma: “non c’è palmo di terra contemplata che non frutti / non c’è palma scompagnata / che generi senza il maschio accanto (p. 355)”. I neologismi con s- intensiva sono le forme verbali sdimenticando (p. 346), sdregrada (p. 351), smaneggiata (p. 431) e sfessa (p. 432), ed il sostantivo sdiluvio (p. 393). Un caso particolare è sfessa, che può essere considerata una forma intensiva del participio passato del verbo fendere: “sfrenata si srotola nella cavità e si sfessa / e non trovando il giusto appoggio non consuona / sicché s’affloscia sul pavimento (p. 432)”. La forma verbale sdimenticando è utilizzata dopo un participio passato, in cui la s- ha una funzione privativa, ovvero in sbilanciato: “e dunque non ci sarà un’altra volta / dopo l’aspersione di acqua e sale / agli angoli della casa addormentata / ma tu restituisci giubbetti e camicie / al manichino sbilanciato / sdimenticando che ogni mutazione è arrischiata (p. 346)”. Le forme sdregrada e smaneggiata sono utilizzate in contesti non rilevanti: “bastarda spadona reseca fiori d’erba / pisciando e cazzeggiando dentro la superba riserva / che sdegrada in pulciose catapecchie (p. 351) straziata non è più sana né mala / è povera e non si fa vedere / per non essere smaneggiata (p. 431)”. Il prefisso s- con valore privativo è utilizzato anche per forme verbali di uso comune, come le parasintetiche scartare (p. 351), scolla (p. 351), scrostando (p. 362), spostarmi (p. 365), spostare (p. 365), spostata (p. 365), spolpano (p. 373), sgrassano (p. 373), svenano (p. 373), scarnificato (p. 373), sfatare (p. 382), snudò (p. 389), sbuzzo (p. 395), smotta (p. 406), sgusciando (p. 423), sloggiare (p. 429), scorticata (p. 430), snoda (p. 432), ma anche forme non parasintetiche come scordare (p. 351), sfiata (p. 351 e p. 417), scuce (p. 351), svincolo (p. 352), svincolando (p. 352), sconvolgere (p. 352), scavalcate (p. 357), scompaiono (p. 358), scomparire (p. 359), sfabbricare (p. 372), sbrinare (p. 382), scalzi (p. 393), sconoscendo (p. 394), svuota (p. 395), sgravidata (p. 396), sgombra (p. 397), sbrinati (p. 403), smontate (p. 405), slega (p. 406), scordato (p. 409), scartò (p. 409), sgravidare (p. 413), sganciando (p. 414), scorda (p. 419), smacchia (p. 420), srotola (p. 432). Interessanti i molteplici versi in cui queste forme verbali sono utilizzate in figure etimologiche: “la casa non smotta perché piovve a dirotto / ma perché ha il culo sulla mota (p. 406) ma tu continui a fabbricare e sfabbricare memorie / per farne cuscini di pietra (p. 372) ma se il dolore sale agli occhi / non vale recriminare / sul sugo che insudicia la pettina / perché una macchia si smacchia / e non vale dire fumi troppo / perché si scambia l’osso con la polpa (p. 420)”. In questo caso, inoltre, oltre alla figura etimologica, si riscontra anche un anafora dei verbi scordare e ricordare: “bisogna scordare panettone e pasta frolla / per ricordare il pane / scordare il buio freddo / del bosco che assedia la casa / e ricordare i lampi di sole ai vetri sgorati / scordare il cipciap di commensali fintoanoressici / per ricordare la pentola della polenta / che sfiata sulla stufa (p. 351)”. I verbi spostare e svincolare sono utilizzati in questi versi secondo la figura del poliptoto: “ho voglia di spostarmi / dice / di spostare in avanti i confini / e marcia verso il cancello / tagliando l’aria a colpi d’ascia / per scacciare gli spiriti stranieri / senza contare che li custodisce al caldo dentro casa / ma è la sua mente che si è spostata (p. 365) sventagliando virgolette / e pizzicando parti invariabili del discorso / mi tiri per i capelli e io mi svincolo / e svincolando te li lascio in mano / e però mi domi se mi coinvolgi / nel chiacchiericcio che ti avvolge e sconvolge (p. 352)”. In quest’ultima strofa, si riscontrano anche altre forme caratterizzate da s- privativa come sconvolge e da s- intensiva come sventagliando. L’autrice, inoltre, insiste sulla stessa area semantica, come nell’uso dei gerundi raschiettando e scrostando: “raschiettando incrostrazioni e vecchie muffe / e scrostando calcinacci” (p. 362); del verbo sfatare e del sostantivo fola (‘favola, fiaba’): “m’impegno in imprese di fiori e frutti / per mettere al coperto i nidi / e sfatare la fola dello stento (p. 382)”; dei participi passati smonate e sciolti: “nessuna lusinga / il male è tutto alliffato truccato griffato / addirittura buonista / e rincuorati dall’eco di piccoli passi pensiamo / che riusciremo ad aprire la finestra / smontate le impalcature e sciolti i velami (p. 405)”; delle forme verbali slega e sega: “si attorciglia e sorprende nell’imbroglio / si slega e sega / si leva d’impaccio (p.406)”; del verbo sgravidare e dell’aggettivo pregna: “il lilium sulphureum che però è profumatissimo / per sgravidare la mente pregna / e punzecchiare la sofferenze (p. 413)”. L’espressività delle forme con prefisso s- è accentuata dall’uso della climax, come in questi versi: “in Africa milioni di formiche / spolpano polli e sgrassano maialini / e quando vanno all’attacco dell’uomo che dorme / lo intossicano e svenano / sicché langue senza sangue / e viene meglio scarnificato (p. 373) scorticata sguizza e ribatte / sale e scende per guidare il sorso oltre l’istmo (p. 430)”. Si riscontrano aggettivi di uso comune con s- privativa come smemorata (p. 345), sbilanciato (p. 346), scalzi (p. 375), sdentato (p. 391), scoperto (p. 423) ma anche sostantivi come sviamento (p. 382), snervamento (p. 382), sfiatatoio (p. 410). Anche nel caso di dell’aggettivo smemorata si riscontra una figura etimologica: “smangiata dagli acidi del sudore / disprezza la mente smemorata (p. 345)”. Il sostantivo snervamento, invece, è utilizzato in una strofa in cui, con altri sostantivi ugualmente espressivi come soffocamento e starnazzamento, è posto a fine verso, in rima baciata: “e non devia né smarrisce lo sguardo / ma riconosce il sangue scuro del soffocamento / e vede i segni della dissuasione / sulla palizzata abbattuta / pure persistendo polveroso stranazzamento / dopo il quale più increscioso si fa lo snervamento (p. 382)”. L’espressività si riscontra anche in questo verso: “urlerò urlerò per dare sfiatatoio all’angoscia (p. 410)” […] [NOTE] 82 Dardano 1978, 88. Cfr. ivi, 92 e Adamo-Della Valle 2017, 37. 83 Cfr. Dardano 1978, 26-28 e Adamo-Della Valle 2017, 47. 84 D’Achille 2003, 135. Cfr. Dardano 1978, 176. 85 Cfr. D’Achille 2003, 135 e Dardano 1978, 191-92. **Elisabetta Biemmi** , _«Corpo a corpo con le parole». La poesia di Jolanda Insana_ , Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2018-2019 Share:
adrianomaini.altervista.org
December 4, 2025 at 1:08 AM
Arrivarono alla stazione di Acilia un’ottantina di braccianti agricoli collasgarba2.altervista.org/ar…
Arrivarono alla stazione di Acilia un’ottantina di braccianti agricoli
Fonte: Wikipedia Nel maggio 1950 il governo, pressato dalla conflittualità nelle campagne di tutto il paese, presentò il progetto della legge stralcio, poi approvata nel mese di ottobre. Essa riguardava il delta padano, la Maremma toscano-laziale, il Fucino, la Campania, la Puglia, la Lucania, il Molise e la Sardegna e prevedeva un programma di scorporo e di riforma molto ampio: complessivamente, furono espropriati 750mila ettari idi terre, distribuiti a 120mila nuclei familiari <1009. Il 12 settembre 1951, il questore Pòlito emanò un ordine di servizio in cui affermava che la Federterra stava organizzando delle nuove agitazioni nella provincia di Roma, chiedendo l’estensione della legge tralcio a tutto il territorio della Provincia e l’assegnazione delle terre ai contadini, prima dell’inizio della semina: “È, quindi, presumibile che agli sporadici tentativi di invasione di terre, già effettuati durante l’estate, segua, imminentemente, una ripresa delle arbitrarie azioni occupatorie, su vasta scala. […] Questo ennesimo delinearsi di una campagna diretta a provocare, per finalità di partito, occupazioni di terre nell’Agro romano, deve trovare le forze dell’ordine pronte, come sempre, a sventare qualsiasi minaccia e a reprimere qualsiasi azione di spoliazione a danno di legittimi proprietari, sgombrando immediatamente i terreni che venissero invasi”. <1010 Questi tentativi avrebbero dovuto iniziare domenica 23 settembre. Il questore raccomandò che «le forze dell’ordine, di fronte ad invasioni in atto, dovranno senz’altro procedere all’arresto degli organizzatori e capeggiatori delle invasioni e di chiunque vi prenda parte, traducendoli in questo centrale Ufficio, a mia disposizione» <1011. Effettivamente, il 23 settembre furono effettuati tentativi di occupazioni di terre nelle tenute Gregna S. Andrea ad Anagnina (diciannove fermati, tra cui tre donne) <1012 e in pochi altri territori della Provincia: l’avvio della mobilitazione fu, quindi, piuttosto fiacco. Ciò fu considerato un successo della polizia dal questore Pòlito: “La prima offensiva, scatenata oggi, dal partito comunista, nelle campagne della provincia di Roma, si è conclusa con una clamorosa disfatta. I servizi informativi di questo Ufficio, in funzione da qualche mese in tutto il territorio della Provincia, hanno fatto sì che gli organizzatori dei disordini nelle campagne non abbiano compiuto, di fatto, alcuna mossa, né durante la fase preparatoria dell’agitazione, che non sia venuta tempestivamente a conoscenza di quest’Ufficio, il quale si è trovato, di conseguenza, in grado di parare quasi tutti i colpi dei nemici dell’ordine e della democrazia. Le forze dell’ordine hanno potuto, nella maggior parte dei casi, stroncare le occupazioni di terre con semplici interventi preventivi. […] Quando l’apparato comunista si è messo in moto, verso le ore 5,30 di stamane, contemporaneamente ad esso si è mossa anche la Forza Pubblica. Gli osservatori hanno tempestivamente segnalato i movimenti degli agitatori, la cui azione ha potuto essere rapidissimamente annullata, nella stragrande maggioranza dei casi, molto prima ancora che si concretizzasse l’effettiva occupazione di terre”. <1013 Nell’ottobre 1952, si ebbero alcuni tentativi di occupazioni di terre nell’Agro romano per la concessione di terre incolte e contro il nuovo progetto di legge stralcio <1014. In particolare, il 12 ottobre arrivarono alla stazione di Acilia un’ottantina di braccianti agricoli capeggiati dal comunista Flaminio Trevi e si diressero in località Palocco per occupare un terreno di proprietà del comune di Roma e ceduto ai combattenti e reduci: la polizia fermò Trevi e un altro manifestante, inducendo gli altri braccianti a tornare a Ciciliano, loro luogo di provenienza <1015. Lo stesso giorno, a Ponte Galeria, quindici braccianti capeggiati dal segretario locale della sezione comunista occuparono simbolicamente dei terreni della principessa Del Grado: vi issarono un cartellone e se ne andarono <1016. Con queste mobilitazioni si conclusero le lotte agrarie nel comune di Roma che, tuttavia, non avevano mai avuto una grande intensità. [NOTE] 1009 Malgeri, La stagione del centrismo, cit., p. 103 1010 Acs, Mi, Gab, 1950-52, b. 173, f. 15069/2 – Roma – Occupazioni terre – Corrispondenza di carattere generale. Ordine di servizio del 12 settembre 1951. 1011 Ivi. Ordine di servizio del 22 settembre 1951. 1012 Ivi. Fonogramma del 23 settembre 1951, ore 11,10. 1013 Ivi. Comunicazione di Pòlito del 23 settembre 1951. 1014 Alla vigilia del periodo delle semine i contadini rivendicano le loro terre, «l’Unità», 25 ottobre 1952; I contadini in agitazione nella provincia di Roma, «l’Unità», 28 ottobre 1952. 1015 Acs, Mi, Ps, 1952, b. 77, f. – Roma – Lavoratori agricoli. Comunicazione di Pòlito del 12 ottobre 1952 1016 Acs, Mi, Gab, 1950-52, b. 173, f. 15069/2 – Roma – Occupazioni terre – Corrispondenza di carattere generale. Fonogramma del 12 ottobre 1952, ore 16. **Ilenia Rossini** , _Conflittualità sociale, violenza politica e collettiva e gestione dell’ordine pubblico a Roma (luglio 1948-luglio 1960)_ , Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 2014-2015 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
December 4, 2025 at 12:01 AM
Non era una novità, per Morlotti, confrontarsi con il nudo femminile adrianomaini.altervista.org/no…
Non era una novità, per Morlotti, confrontarsi con il nudo femminile
Ennio Morlotti, Figura femminile nuda seduta, 1939. Raccolta Alberto Della Ragione e Collezioni del Novecento, Palazzina di Belvedere, Firenze. Fonte: Catalogo generale dei Beni Culturali Quella di allontanarsi dal gruppo degli Otto alla vigilia della Biennale [del 1954] rappresentò apparentemente una scelta al ribasso da parte di Morlotti, quantomeno dal punto di vista della visibilità di cui le sue opere avrebbero goduto in occasione della rassegna veneziana. I vecchi compagni di strada, come lui ormai tra gli artisti italiani più quotati anche a livello internazionale, esponevano insieme all’interno del salone 20, ancora con una forte identità di gruppo. A Giuseppe Santomaso, vincitore del Primo Premio per la Pittura di quell’anno, era stata poi dedicata a poche sale di distanza una mostra antologica, introdotta in catalogo da Giulio Carlo Argan. I cinque nudi di Morlotti, tutti presentati con il titolo «Studio», si trovavano invece nella zona opposta del padiglione centrale, e soprattutto in una posizione assai più defilata, in parte messi in ombra da due imponenti mostre personali con cui condividevano gli spazi della sala 14. <151 La prima era quella di Leoncillo, presentato da Longhi, che di lì a poco avrebbe dedicato allo scultore una monografia edita da De Luca e che già nella sua introduzione veneziana <152 poneva l’accento sulla ricerca dello scultore di una nuova libertà lirica, affidata innanzitutto alle superfici policrome delle sue ceramiche. La seconda era invece una vasta personale <153 di Lucio Fontana, per metà incentrata sulla serie dei _Concetti spaziali_ : le «recenti ed allucinate tele ‘bucate’», sottolineava in catalogo Giampiero Giani, erano l’esito più avanzato dell’indagine di Fontana intorno al «ritmo magico degli spazi astrali», e in quella occasione <154 avrebbero finito per catalizzare in maniera preponderante le attenzioni del pubblico in sala, ritrovandosi peraltro al centro di alcuni episodi di vandalismo che neanche le misure di sorveglianza predisposte da Pallucchini riuscirono a scongiurare. <155 Le tele di Morlotti condividevano poi le pareti della sala 14 con opere di artisti assai meno in vista. In particolare, con una netta prevalenza di quadri di paesaggio, vi erano tre dei pittori bolognesi presentati in primavera a Torino da Arcangeli: Pompilio Mandelli, Ilario Rossi e Sergio Romiti. A questi si aggiungeva poi Giovanni Stradone, a sua volta presente con un piccolo gruppo di paesaggi e vedute urbane pesantemente impastate di materia pittorica, che in fase di allestimento dovevano evidentemente aver suggerito un possibile dialogo con i densi e grondanti nudi morlottiani. <156 Non era una novità, per Morlotti, confrontarsi con il nudo femminile. Negli ultimi anni era capitato in più occasioni che il pittore esponesse alcune sue figure, di solito plasmate attraverso ampie pennellate e larghi profili curvilinei, con ricche soluzioni di tavolozza in cui le tinte più cupe dei fondali dialogavano liberamente con tonalità brillanti e luminose di verde, azzurro e violetto (figg. 22-23). <157 Nei cinque dipinti presentati a Venezia il pittore rinunciava però a qualsiasi residuo di impalcatura strutturale, lasciando quasi affogare le proprie figure entro una densa materia organica, simile a uno strato di argilla su cui i corpi sembravano aver lasciato unicamente delle labili impronte. Appariva evidente la presa di distanza da qualsiasi volontà di salda costruzione geometrica, così come dall’orizzonte formale astratto-concreto. Era appunto in un’ottica anti-venturiana, del resto, che su “Rinascita” Renato Guttuso spazzava una lancia a favore del pittore: «in una Biennale così per benino e fatta di gente che non sbaglia mai», Morlotti gli appariva come «un artista che […] non ‘si siede’ sulle sue posizioni, e che si presenta sotto un nuovo volto. Un volto in definitiva più umano». <158 Nel complesso, comunque, i cinque _Studi_ raccolsero un’accoglienza piuttosto fredda, spingendo il pittore a distruggerli pochi mesi più tardi. Alcune fotografie, insieme ai commenti degli osservatori del tempo, consentono tuttavia di farsi un’idea dell’aspetto di questi lavori, ma soprattutto di misurare la difficoltà, da parte del pubblico e della critica, nel recepirne gli elementi di novità (figg. 24-26). Il primo dato che salta all’occhio, <159 confrontandosi con i commenti apparsi a stampa, è in particolare la frequenza con cui i recensori, non senza qualche impaccio, tentarono di servirsi di metafore di carattere gastronomico per descrivere l’aspetto viscoso e grondante di materia di queste tele. Savonuzzi parlava ad esempio di una «pasta di gelati rosa e gialla», sotto la quale gli sembravano galleggiare i «fantasmi delle vecchie figure di Cassinari». Così, sulle pagine <160 de “Il Nuovo Corriere”, anche Augusto Righi faceva riferimento a una «pasta giallo-rosa», appena emergente da un «fondo ‘alla maionese’». <161 Molto diverse erano le considerazioni di Arcangeli, che su “L’Approdo” si rammaricava della cattiva accoglienza ricevuta da quelle «larve di figura densissime di materia, come brancolanti entro un plasma vivente». Secondo una lettura un po’ forzata, quindi, il critico tentava di porre le figure di Morlotti in relazione con il lavoro «gremito e inquieto» condotto sulla natura da Mandelli, i cui cinque stenografici paesaggi avevano trovato posto alle pareti della stessa sala. Arcangeli affiancava <162 poi alle opere dei due artisti anche gli esiti dalla «figurazione naturale accesa e flagrante» di un altro pittore che di lì a poco avrebbe a sua volta preso le distanze dal gruppo degli Otto: Mattia Moreni, presente a Venezia con tre tele di grandi dimensioni in cui il paesaggio appariva trasfigurato attraverso un articolato sistema di stesure eterogenee e di rapide pennellate: _Grande cespuglio col sole, Festa sulla collina_ e _Il giardino delle Mimose_ (figg. 65-67). <163 Il trio Morlotti-Mandelli-Moreni veniva riproposto da Arcangeli in una seconda recensione alla Biennale destinata alla rivista spagnola “Goya”: un testo finora dimenticato dagli studi, ma una cui versione dattiloscritta in italiano si trova ancora oggi tra le carte private di Mandelli. Lo studioso, in questa sede, sottolineava lo sforzo orgogliosamente individuale dei tre pittori, avviati «senza programmi prefissi, su una strada in cui la natura […] è ancora fonte di libere passioni, di nozioni non arbitrarie»: parole che riflettevano soprattutto la volontà di distinguere in maniera netta le ricerche dei tre artisti dalla «aridità» che gli sembrava invece caratterizzare larga parte dei lavori dalla pur vaga dimensione paesaggistica presenti quell’anno nel padiglione italiano. <164 Da un lato, infatti, non erano pochi gli artisti del fronte realista che negli ultimi tempi, anche in reazione a una fase di sostanziale crisi per le opere di racconto dell’attualità politica, si erano cimentati con il quadro di paesaggio. Persino Guttuso, nel suo _Bilancio della Biennale_ apparso su “Rinascita”, domandava ai propri lettori: «Perché dipingere sempre mondine curve sull’acquitrino? Forse che il paesaggio non fa parte della realtà? […] Evidentemente questi problemi ci sono nella attuale fase del movimento realista». <165 Dall’altro lato, anche buona parte dei pittori del gruppo degli Otto si era presentata quell’anno a Venezia con quadri i cui titoli suggerivano evidenti rimandi alla dimensione naturale: da _Estate nell’orto_ di Afro a _Laguna di Grado_ di Birolli, da Bosco di Corpora a Foresta vergine di Vedova. Soprattutto scorrendo l’elenco delle opere della personale di Santomaso, poi, spiccavano titoli come: _Strutture nella nebbia, Il confine della palude, Ricordo verde, Paesaggio giallo, Capanno all’alba, Ritmi rurali, Angolo contro vento, Il capanno sfasciato_ o ancora _Muro e alghe_. <166 [NOTE] 151 VENEZIA 1954, pp. 80. 152 LONGHI 1954e. 153 LONGHI 1954a, pp. 84-85. 154 GIANI 1954, pp. 82-83. Sulle mostre di Leoncillo e Fontana si veda: DEL PUPPO 2019, pp. 117-130. 155 R. Pallucchini, lettera a L. Fontana, Venezia, 4 dicembre 1954. ASAC. Fondo Storico, Biennale 1954, busta 53 (Esposizione internazionale d’arte del 1954. Mostre cicliche). 156 VENEZIA 1954, pp. 80-81. 157 Si veda: BRUNO-CASTAGNOLI 2000, pp. 118-119, 123-124. 158 GUTTUSO 1954b, p. 693. 159 Le fotografie in bianco e nero degli Studi sono pubblicate in: BRUNO-CASTAGNOLI 2000, p. 136. 160 SAVONUZZI 1954b, p. 3. 161 RIGHI 1954a. 162 ARCANGELI 1954a, p. 101. Mandelli esponeva: Paesaggio d’autunno (1953), Paesaggio in grigio (1954), Paesaggio verde-grigio (1954), Paesaggio di primavera (1954), Alberi spogli (1954) (VENEZIA 1954, p. 80). 163 VENEZIA 1954, p. 111. 164 ARCANGELI 1954e. Il testo citato è quello del dattiloscritto in italiano, conservato degli eredi del pittore bolognese. Archivio Pompilio Mandelli, Bologna (d’ora in poi: APM). 165 GUTTUSO 1954b, p. 695. 166 VENEZIA 1954, pp. 110-111. **Giorgio Motisi** , _Francesco Arcangeli e gli artisti dell’Ultimo Naturalismo_ , Tesi di dottorato, Anno Accademico 2024-2025 Share:
adrianomaini.altervista.org
November 23, 2025 at 12:15 PM
La promulgazione delle leggi razziali cambiò anche in Sicilia l’esistenza degli ebrei collasgarba2.altervista.org/la…
La promulgazione delle leggi razziali cambiò anche in Sicilia l’esistenza degli ebrei
La persecuzione degli ebrei avvenne anche in Sicilia con la stessa brutalità del resto d’Italia e d’Europa. Le fonti raccontano la presenza di una cultura antisemita e razzista a sostegno del fascismo, rappresentata nel mondo universitario, intellettuale e del giornalismo. “La presenza ebraica in Sicilia non era stata forte dopo l’espulsione del 1492. A partire dalla fine dell’Ottocento, essa cominciò a riprendere vigore e l’economia e il mondo culturale siciliano ne subirono positivamente gli influssi. Va rilevato che l’intraprendenza di uomini come Alberto Ahrens, Otto Sternheim, gli Hoffmann, Albert e Giulio Lecerf e altri, contribuì ad incentivare lo sviluppo isolano. Ad essi si aggiunsero negli anni seguenti i Grinstein e i Bemporaid a Catania, gli Scächter, i Mausner ed altri ancora a Palermo”. <38 Il censimento voluto da Mussolini nel 1938 venne attuato anche in Sicilia per verificare i numeri della presenza ebraica e per preparare il peggio, secondo le stesse modalità in atto nel resto d’Italia e nel resto d’Europa ad opera degli alleati nazisti. “Dal censimento risultò che la popolazione ebraica siciliana era costituita da 202 persone, ognuna delle quali dotata di buona posizione socio-economica, ma il numero degli ebrei presenti nell’isola era molto più elevato in quanto, come già specificato, molti erano giunti dai paesi dell’est o erano presenti in Sicilia per motivi di studio o di lavoro, erano non residenti per cui non censiti”. <39 Gli ebrei subirono un controllo continuo da parte della polizia, in ogni loro attività e abitudine, perfino negli spostamenti da casa. I loro movimenti erano monitorati per tenerli costantemente sotto controllo e potere intervenire, di fronte ad ogni sospetto o nuovo ordine, con la certezza di conoscere tutti gli elementi necessari per colpire le vittime. Sbaglia chi pensa alla storia della Shoah in Sicilia, come ad un evento di minore intensità. Sia pure, infatti, con una tempistica diversa, soprattutto nella fase iniziale, la persecuzione contro gli ebrei si sviluppò con le stesse logiche e lo stesso profilo cinico e violento. Le cifre relative alla presenza ebraica nella nostra regione risentirono del tentativo di sottrarsi con ogni espediente al censimento, durante le operazioni di accertamento. Ne scaturì un dato certamente parziale. “I 202 ebrei presenti ufficialmente in Sicilia, erano così suddivisi, secondo le province: Palermo 96; Catania 75; Messina 21; Agrigento 4; Siracusa 3; Enna 3; Caltanissetta 0; Ragusa 0; Trapani 0”. <40 Il loro numero in realtà superava le cifre del censimento, in considerazione del fatto che in molti casi si trattava di non residenti, ma indubbiamente non si trattò di una presenza elevata. Ciò che invece non può essere avallato è il tentativo, messo in atto, durante e dopo la fine della seconda guerra mondiale, di minimizzare i fatti accaduti nel territorio siciliano. Gli ebrei presenti a Palermo furono medici, tra cui Maurizio Ascoli, ordinari e straordinari nell’Università del capoluogo, tra cui i professori Mario Fubini ed Emilio Segre, ingegneri, musicisti, imprenditori, commercianti. Il sistema di controllo fascista attivò nei loro confronti sospensioni dall’insegnamento e perdita del diritto di lavorare con il sostegno degli organi di informazione locale, schierati, a parte rari casi, in gran parte per l’appoggio alle posizioni antisemite. “Ben cinque professori universitari sono costretti a lasciare l’insegnamento a Palermo, (in tutta Italia furono 99): Camillo Artom (ordinario di Fisiologia Umana), Maurizio Ascoli (ordinario di clinica medica generale e terapia medica), Alberto Dina (Ordinario di Elettronica), Mario Fubini (straordinario di Letteratura italiana), Emilio Segre (ordinario di Fisica sperimentale). Nel suo discorso di insediamento come rettore, e giocato tutto in chiave antisemita, Giuseppe Maggiore se ne dichiarerà soddisfatto”. <41 Maurizio Ascoli, professore e medico di grande fama fu collocato in pensione. In base alle leggi entrate in vigore, avrebbe potuto esercitare la professione limitatamente alla cura di pazienti di razza ebrea. Di fatto non accettò una tale repressione, proseguendo il suo lavoro, esponendosi al rischio. La storia del rettore Maggiore tornò alla ribalta delle cronache, a Palermo, nel 1999, in seguito alla decisione assunta dalla Giunta Municipale, guidata dal Sindaco, Leoluca Orlando, di intitolargli una strada per i suoi meriti accademici e scientifici. Tra le motivazioni che accompagnavano questa scelta, gli amministratori palermitani scelsero di porre in rilievo l’importanza del valore della tolleranza, di fronte al binomio rappresentato dal giudizio storico e i meriti di un uomo. Un’impostazione destinata a dividere e a far discutere e infatti così avvenne”. Ad accorgersi della notizia, persa tra le brevi del Giornale di Sicilia fu lo stesso Genco che, con una lettera alla redazione palermitana de La Repubblica, sollevò il caso”. <42 Ne scaturì un ampio e forte dibattito che evidenziò come una parte della città non condividesse questa scelta, vissuta come una ferita e una forzatura. “Può una figura prestigiosa in un campo specifico della scienza o di qualsiasi altro ambito, essere giudicata a prescindere dalle sue parole e azioni, se queste stesse hanno contribuito a scrivere pagine di discriminazione, razzismo e antisemitismo?” Preso atto dell’errore fu lo stesso Orlando a revocare il provvedimento. […] Nel 1939, quando in Sicilia i municipi affrettarono i tempi delle comunicazioni di appartenenza alla razza ebraica, in tanti decisero la fuga verso il resto dell’Europa, di fronte ad una escalation fascista omicida che cominciò a camminare alla stessa velocità del modello genocidiario nazista. L’impegno di Papa Pio XI non trovò corrispondenza nella chiesa siciliana, guidata dal cardinale Lavitrano che arrivò a partecipare ad eventi pubblici di esaltazione della razza ariana, in cui non esitò a manifestare pubblicamente il proprio consenso. In prossimità dell’entrata in guerra dell’Italia, i fascisti procedettero negli arresti degli ebrei, presso le carceri delle proprie città. Lo stesso avvenne nel territorio di Palermo e in Sicilia. I fascisti usarono campi di internamento e di concentramento. Per la loro prigionia vennero individuate le isole di Lipari e Ustica, dove già in passato erano stati confinati i dissidenti politici. A Palermo nacque Natalia Levi, più nota al grande pubblico con il cognome del marito Ginzburg. La grande scrittrice trascorse nel capoluogo siciliano i primissimi anni della sua vita, per fare poi ritorno a Torino. “Natalia iniziò assai presto a scrivere, e a diciotto anni pubblicò il suo primo racconto, I bambini, sulla rivista Solaria. Arrivarono le leggi razziali e cominciarono le restrizioni, le partenze e i licenziamenti. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Leone Ginzburg fu inviato al confino in Abruzzo. Natalia e i figli lo seguirono, vivendo dal 1940 al 1943 in un paesino dove la donna scrisse il primo romanzo, La strada che va in città, pubblicato nel 1942 con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte”. <45 La promulgazione delle leggi razziali cambiò anche in Sicilia l’esistenza degli ebrei e di coloro che erano sposati con ebrei. La nuova condizione investì anche il ruolo delle donne, chiamate ad affrontare il mutamento delle condizioni di vita e i pericoli che ne scaturirono. Le donne ebree che conobbero in Sicilia un viaggio verso i campi della Shoah furono nove. Si trattò di “nove vittime innocenti della follia umana. Di esse, tre erano ebree, e nessuna poté raccontare l’inferno, perché da quell’inferno non fecero ritorno: Olga Renata Castelli, Egle Segre ed Emma Moscato. Delle tre, solo Olga ricevette un numero, perdendo la propria identità e nome. Divenne solo A-5365. Era figlia del grande agitatore livornese di nascita, ma siciliano d’adozione, Enrico Castelli, il socialista agitatore di folle, la cui vita si spense, come quella della figlia adorata, e le cui membra passarono per il camino”. <46 Egle Segre al suo arrivo ad Auschwitz non superò la selezione. Venne indirizzata alla fila diretta ai forni crematori. Ad Auschwitz morì pure il palermitano Leo Colonna. Le donne ebree in Sicilia non ebbero paura di affrontare le persecuzioni e rimasero fieramente al fianco dei propri mariti e dei propri figli. Si trattò spesso di donne appartenenti ad un ceto sociale medio-alto e istruito. La loro vita cambiò da un giorno l’altro, ma in loro prevalse il coraggio e la capacità di resistenza. In loro rimase la consapevolezza di una vita cambiata e che nessuno potrà mai restituire, senza una comprensibile ragione. La carta stampata in Sicilia fu al servizio del fascismo e condusse costanti campagne, adoperando prime pagine e costanti commenti per sottolineare il sostegno alla persecuzione degli ebrei. “I quattro quotidiani – Giornale di Sicilia e L’Ora a Palermo, Sicilia del Popolo a Catania, La Gazzetta a Messina – furono il campo di tiro su cui si esercitarono i razzisti nostrani, redattori interni compresi. Il segretario interprovinciale del sindacato fascista dei giornalisti siciliani, Vincenzo Consiglio, proclamava con orgoglio: «Sono lieto di poter comunicare che, in seguito ad accertamenti eseguiti, il Giornalismo siciliano, a servizio del Regime, può considerarsi razzialmente puro». Era già l’8 novembre 1938, la campagna razziale era stata codificata ed era in pieno svolgimento”. <47 In sostanza la promulgazione delle leggi razziali fu preceduta da un’organizzazione che riguardava ogni ambito strategico, in grado di incidere sull’opinione pubblica e sulla riuscita dell’oppressione contro gli ebrei siciliani. Dopo le leggi razziali, il regime si adoperò per potenziare i presupposti e la diffusione del razzismo. Il governo fascista intervenne sui programmi del mondo accademico per orientare una più elevata affermazione della razza, anche in questo caso con un forte sostegno della stampa. Gli anni trascorsero tra le difficoltà delle vittime che rappresentarono numericamente un piccolo squarcio della complessiva popolazione siciliana. Il loro dramma fu anche quello di essere state persone perfettamente integrate nella realtà palermitana e siciliana, trovatesi di fronte ad una nuova realtà difficile da fronteggiare. Proprio nei momenti decisivi dell’avanzata anglo-americana, la Sicilia riuscì comunque ad essere una terra di svolta, un confine di libertà restituita. “La Sicilia non era stata ancora tutta conquistata dall’armata da sbarco anglo-americana, e mancava un giorno all’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo che avrebbe messo in minoranza Mussolini e in crisi non voluta ma irreversibile il Regime, quando il comandante in capo delle forze alleate, generale Eisenhower, «a nome dei governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna», proclamò che erano abolite «le leggi le quali fanno distinzione in base a razza, colore o fede». Era il 23 luglio del 1943. La direttiva di Eisenhower fu ribadita cinque giorni dopo nel proclama N. 7 emanato a Palermo dal generale Harold R.L.G. Alexander, comandante delle forze alleate in Sicilia e governatore militare del territorio occupato. La Sicilia fu così il primo pezzetto d’Europa dove si cominciò a cancellare la grande infamia della persecuzione contro gli ebrei, proprio mentre nei paesi sotto il dominio nazista – e presto due terzi d’Italia sarebbero stati anch’essi in tale condizione – si perfezionavano e incanaglivano le tecniche della soluzione finale”. <48 Fu una grande conquista per la Sicilia che non poté mai alleviare tuttavia il dolore e la sofferenza dei perseguitati, delle vittime e dei loro familiari ancora oggi vivo e di cui si ha il dovere di fare memoria. [NOTE] 38 Lucia Vincenti, Le donne ebree in Sicilia al tempo della Shoah, cit. p. 29. 39 Lucia Vincenti, Il silenzio e le urla, cit. p. 133. 40 Lucia Vincenti, Il silenzio e le urla, cit. p. 136. 41 Mario Genco, Repulisti Ebraico, Nota introduttiva di Piero Violante, La goccia di umanità e l’asterisco, Istituto Gramsci Siciliano, 2000, p. 23. 42 Mario Genco, Repulisti Ebraico, cit. p. 29. 45 Lucia Vincenti, Le donne ebree in Sicilia al tempo della Shoah, cit. p. 57. 46 Lucia Vincenti, Le donne ebree in Sicilia al tempo della Shoah, cit. p.16. 47 Mario Genco, Repulisti Ebraico, cit. p. 41. 48 Mario Genco, Repulisti Ebraico, cit. pp. 33,34. **Antonino Terminelli** ,_La Shoah nel contesto del Ventesimo e Ventunesimo secolo_ , Tesi di dottorato, Università degli Studi di Palermo, 2013 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
November 23, 2025 at 10:33 AM
La Weltanschauung promossa da “Frigidaire” conquista anche la nuova generazione di narratori a fumetti adrianomaini.altervista.org/la…
La Weltanschauung promossa da “Frigidaire” conquista anche la nuova generazione di narratori a fumetti
Andrea Pazienza, Se vuoi sangue lo avrai, parte I, in “Frigidaire”, anno I, n. 1, novembre 1980, particolare. Fonte: Leonardo Agostini, Op. cit. infra Nonostante una diffusione numericamente non eccezionale, stimata come abbiamo visto intorno alle 20/25 mila copie vendute ogni mese, “Frigidaire” riesce a imporsi come fenomeno di culto per una fetta ben individuata del pubblico italiano. Su una platea complessiva di circa 260 mila lettori, infatti, l’80% è costituito da uomini, mentre la fascia dei lettori di età inferiore ai trentacinque anni si aggira tra il 75 e l’80% <306. Questi dati, rimasti sostanzialmente invariati nel corso degli anni Ottanta e Novanta, certificano il grande successo riscosso da “Frigidaire” presso le giovani generazioni, in particolare tra il pubblico maschile. Del resto, non si può negare che i contenuti e l’estetica di “Frigidaire” rispondano almeno in parte all’immaginario machista degli anni Ottanta, promuovendo una visione cinica e muscolare della mascolinità, a un tempo glamour e iper-violenta, mai del tutto aliena all’idea che la donna sia prima di tutto un oggetto da contemplare e conquistare: nudi femminili sessualizzati vengono esibiti con una certa gratuità, mentre il linguaggio adoperato risulta sovente sessista; allo stesso modo, i contributi femminili sono largamente minoritari rispetto a quelli maschili, come dimostra la composizione all male del gruppo redazionale. Tutto ciò, va detto, non esaurisce la varietà dei contenuti presenti all’interno di “Frigidaire”, molti dei quali contribuiscono al contrario al superamento di stereotipi e chiusure mentali (come quella verso l’omosessualità), ma certo aiuta a spiegare perché il periodico romano riscuota un così largo successo in questo specifico segmento di pubblico, come se le inquietudini e le irrequietezze dei giovani uomini degli anni Ottanta e Novanta trovassero un effetto balsamico nello stile estremo ma schietto di “Frigidaire”. La Weltanschauung promossa da “Frigidaire”, improntata a un racconto cinico e disincantato della Postmodernità, non conquista soltanto i lettori ma anche la nuova generazione di narratori a fumetti. Alcuni di questi esordiscono su “Frigidaire”, o comunque accrescono il proprio successo grazie al prestigio e alla visibilità del periodico diretto da Vincenzo Sparagna: tra questi si ricordano – solo per fare alcuni nomi – Giorgio Carpinteri (1958), Ugo Delucchi (1961), Massimo Giacon (1961) e Giuseppe Palumbo (1964). La stessa esperienza del gruppo Valvoline <307, inaugurata sulle pagine di “Alter Alter” nel 1983 da Daniele Brolli, Giorgio Carpinteri, Igort (al secolo Igor Tuveri, 1958), Marcello Jori, Jerry Kramsky (pseudonimo di Fabrizio Ostani, 1953) e Lorenzo Mattotti (1954), alla quale si unirà presto anche il frigidairiano Massimo Mattioli, non sarebbe possibile senza il precedente di “Frigidaire” (rivista sulla quale il collettivo convergerà dopo il 1984). Figura 41. AA. VV., Gioventù cannibale, a cura di D. Brolli, Torino, Einaudi, 1996, copertina. Fonte: Leonardo Agostini, Op. cit. infra Le originali modalità di raccontare la realtà inaugurate dal “nuovo fumetto italiano” si fanno sentire anche al di fuori del contesto della “nona arte”, contaminando ambiti del sapere fino a questo momento poco avvezzi al linguaggio fumettistico <308. Nel corso degli anni Novanta si fa strada in Italia una nuova generazione di scrittori nei quali è evidente l’influenza dei new media, tra i quali anche il fumetto: si tratta della cosiddetta “Gioventù cannibale”, un gruppo piuttosto eterogeneo di autori che prende il nome dall’omonima antologia di racconti curata nel 1996 dall’ex frigidairiano Daniele Brolli per la collana Stile libero di Einaudi (Figura 41) <309. I contributi della raccolta appartengono a Niccolò Ammanniti (1966), Luisa Brancaccio (1970), Paolo Caredda (1961), Matteo Curtoni (1973), Matteo Galiazzo (1970), Massimiliano Governi (1962), Daniele Luttazzi (al secolo Daniele Fabbri, 1961), Stefano Massaron (1966), Aldo Nove (1967), Andrea Pinketts (pseudonimo di Andrea Pinchetti, 1960-2018) e Alda Teodorani (1968), ma la definizione di “cannibali” può essere attribuita anche ad autori come Enrico Brizzi (1974), Giuseppe Caliceti (1964) e Tiziano Scarpa (1963), che in questo stesso giro di anni pubblicano romanzi emblematici come “Bastogne”, “Fonderia Italghisa” e “Occhi sulla graticola” <310. L’etichetta scelta da Brolli non risponde alla volontà di creare un collettivo di autori, né questi ultimi vogliono formarne uno. La stessa raccolta pubblicata da Einaudi presenta una “notevole varietà di fondo, sia per la qualità degli esiti sia […] per lo stile” <311, rendendo difficile stabilire dei pur minimi criteri d’identificazione del genere. Nonostante questo, l’etichetta ha una grande presa sul pubblico contribuendo al successo commerciale di “Gioventù cannibale”, “prima antologia italiana dell’orrore estremo” (stando al sottotitolo della raccolta), dalla quale scaturisce un caso mediatico destinato a esaurirsi soltanto alla fine del decennio, benché gli stessi autori non si siano mai pienamente riconosciuti nella definizione, sottolineando l’irriducibilità delle proprie opere ai parametri stabiliti dall’etichetta. Ma in cosa consiste la poetica di “Gioventù cannibale”? Secondo Daniele Brolli, i racconti inseriti nell’antologia coprono una lacuna della tradizione letteraria italiana, a metà tra il noir, la cronaca e l’horror, riguardante le casistiche in cui il male si presenta senza movente e senza scopo, lasciando intuire come queste siano secondo lui prevalenti nel contesto della società contemporanea <312. Sopraffatto “dal prevalere semplice e originario del sangue” <313, l’immaginario collettivo della Postmodernità necessita di forme di narrazione adeguate alle circostanze, in grado di superare il moralismo normalizzante del canone letterario. Per questo la turpitudine della società contemporanea confluisce senza censura nei brani “cannibali”, restituendo in forma di racconto gli orrori che quotidianamente la cronaca ci pone di fronte <314. Del resto, come osserva il curatore della raccolta, “Genitori uccisi per un semplice divieto o per denaro; le roulette di massi lanciati dal cavalcavia autostradali; stupri di gruppo consumati come sulla giostra di un luna-park; delitti con mutilazione; esplosioni di violenza contro minoranze di ogni tipo… sono gesti privi di passione e di senso, atti che squarciano il velo superficiale della normalità per rivelare che le sue basi poggiano su un terreno incandescente di inquietudine” <315. La stessa inquietudine che – come abbiamo visto nei capitoli precedenti – segue l’inverarsi della Postmodernità e dei suoi paradigmi, materializzando all’orizzonte scenari allarmanti e distopici, che con molta facilità possono scadere nell’orrorifico. Colto il segnale che un tempo nuovo è arrivato, e verificata l’inattualità del “pudore” tipico della letteratura tradizionale, “Gioventù cannibale” rompe gli argini dando “il segnale di una svolta dell’immaginario, che esce dal limbo della cultura recintato dal moralismo per appropriarsi di una lingua senza compromessi” <316. Proprio quello linguistico è uno tra gli aspetti più innovativi della raccolta, sviluppato in maniera originale attraverso il prelevamento di forme ed espressioni provenienti da altri media, in particolare quelli televisivo e cinematografico. Come spiega la critica Elisabetta Mondello (1952), l’operazione portata avanti da molti dei giovani autori degli anni Novanta – e con loro i “cannibali” – si configura come “un’immersione nei media”, dai quali vengono trafugati lingua e immagini al punto da inverare per iscritto il rispecchiamento dei loro meccanismi e delle loro regole <317. Allora il racconto assume la forma e il ritmo della narrazione cinematografica, mentre le scene si susseguono in maniera febbrile e disarticolata inseguendo l’effetto dello zapping televisivo <318. L’andamento concitato delle vicende scompone la prosa in frammenti irrisolvibili che ricalcano le forme del parlato, incapsulando espressioni colloquiali o volgari che accentuano l’immediatezza del racconto. Ciò che ne risulta è, come spiega Brolli, “una lingua ancora in via di formazione che raccoglie senza falsi pudori le sue parole dai palinsesti televisivi, dalla cultura di strada, dal cinema di genere, dalla musica pop” <319. La tendenza degli autori “cannibali” verso l’ibridazione, il pastiche e la contaminazione dei linguaggi si pone in perfetta continuità con le estetiche postmoderniste che abbiamo già esplorato nei precedenti capitoli, portando a estreme conseguenze le implicazioni massmediatiche della civiltà tardocapitalista, della quale viene tracciato un ritratto a metà tra il nichilismo e l’ironia beffarda. Come chiarisce Elisabetta Mondello, quando consideriamo la letteratura degli anni Novanta “siamo sul terreno del postmoderno e delle poetiche postmoderniste, intesi come indebolimento del soggetto, ‘crisi dei fondamenti’, sostituzione del linguaggio alle cose, intertestualità, uso di uno sperimentalismo ‘normalizzato’ adatto a un consumo di massa” <320. I riferimenti artistici e culturali di questi giovani autori sono trasversali, dal cinema alla letteratura, passando certo per il fumetto. Lo stesso Daniele Brolli, fumettista e scrittore, riconosce un precedente nel cinema di Dario Argento, Mario Bava e Lucio Fulci, oltreché nei fumetti “neri” di Diabolik, Kriminal e Satanik <321. Un altro modello è certamente la scrittura fluida e concitata di Pier Vittorio Tondelli, punto di riferimento imprescindibile per i giovani narratori degli anni Ottanta e Novanta <322, ma giocano un peso rilevante anche lo splatter sclerotizzato di Bret Easton Ellis e la disarticolazione narrativa introdotta dal film “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino <323. [NOTE] 306 Audipress, Storico volumi indagini stampa dal 1963 al 1991; https://audipress.it/dati/storico-volumi-indagini-stampa-dal-1963-al-1991/ [ultimo accesso 20 gennaio 2025]. 307 Per una trattazione più approfondita dell’argomento si rimanda ad AA. VV., Valvoline story, Bologna, Coconino Press, 2014. La storia, lo stile e gli obiettivi del gruppo Valvoline sono citati anche in L. Boschi, Irripetibili. Le grandi stagioni del fumetto italiano, cit., e L. Boschi, Frigo, valvole e balloons. Viaggio in vent’anni di fumetto italiano d’autore, a cura di P. Pallavicini, Roma-Napoli, Theoria, 1997. 308 A questo proposito, è d’uopo ricordare la scarsa considerazione artistica (e ancor meno letteraria) del medium fumettistico, considerato per molti anni niente più che materiale per bambini. Ciò cambierà soltanto a partire dalla metà degli anni Sessanta grazie al lavoro di “Linus” e alle ricerche di critici come Umberto Eco e Roberto Giammanco (1926-2013); cfr. U. Eco, Apocalittici e integrati, cit.; R. Giammanco, Gulp! Il sortilegio a fumetti, Milano, Mondadori, 1965. Ancora oggi, va detto, quasi tutti i principali dizionari di della lingua italiana conservano memoria di questo pregiudizio, identificando il fumetto anche come “opera teatrale, cinematografica, narrativa di contenuto banale e superficiale” (Voce “Fumetto” del Dizionario Hoepli disponibile su www.repubblica.it; https://dizionari.repubblica.it/Italiano/F/fumetto.html [ultimo accesso 28 gennaio 2025]), “opera narrativa o cinematografica banale, di scarso valore e di facile effetto” (Voce “Fumetto” del Dizionario Garzanti; https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=racconto%20formato%20da%20una%20serie%20di%20disegni%20con%20brevi%20testi%20di… [ultimo accesso 28 gennaio 2025]), “opera narrativa o cinematografica di scarso valore e piuttosto banale” (Voce “Fumetto” del Dizionario Sabatini-Coletti disponibile su www.corriere.it; https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/F/fumetto.shtml [ultimo accesso 28 gennaio 2025]), oppure “opera letteraria o cinematografica o televisiva di scarso valore, dal contenuto banale e superficiale” (Voce “Fumetto” del Dizionario Il nuovo De Mauro disponibile su www.internazionale.it; https://dizionario.internazionale.it/parola/fumetto [ultimo accesso 28 gennaio 2025]). 309 Cfr. AA. VV., Gioventù cannibale. La prima antologia italiano dell’orrore estremo, a cura di D. Brolli, Torino, Einaudi, 1996. 310 L’inserimento di Scarpa è sostenuto dallo stesso curatore in D. Brolli, Le favole cambiano, in AA. VV., Gioventù cannibale, cit., pp. V-X, qui p. VIII. Il romanzo di Caliceti è citato invece in F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 265. 311 C. Tirinanzi De Medici, Il romanzo italiano contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Roma, Carocci, 2018, p. 134. 312 D. Brolli, Le favole cambiano, cit., qui pp. V-VI. 313 Ivi, qui p. VI. 314 Si veda a questo proposito M. Sinibaldi, Pulp. La letteratura nell’era della simultaneità, Roma, Donzelli, 1997, p. 65 e ss., nelle quali l’autore ridimensiona notevolmente la portata orrorifica della raccolta, circoscrivendo la sua originalità all’ambito del linguaggio. 315 D. Brolli, Le favole cambiano, cit., qui pp. VII-VIII. 316 Ivi, qui p. X. Si veda a questo proposito anche E. Mondello, In principio fu Tondelli. Letteratura, merci, televisione nella narrativa degli anni Novanta, Milano, il Saggiatore, 2007, p. 75, in cui l’autrice riconosce a Gioventù cannibale il merito – al di là delle critiche che ha ricevuto – di aver saputo indicare “un clima, una geografia, un paesaggio cambiati”. 317 E. Mondello, La giovane narrativa degli anni Novanta: “cannibali” e dintorni, in Id. (a cura di), La narrativa italiana degli anni Novanta, Roma, Meltemi, 2004, pp. 11-37, qui p. 15. 318 Si veda a questo proposito il racconto Il mondo dell’amore di Aldo Nove contenuto in AA. VV., Gioventù cannibale, cit., pp. 53-62. 319 D. Brolli, Le favole cambiano, cit., qui p. VIII. 320 E. Mondello, La giovane narrativa degli anni Novanta: “cannibali” e dintorni, cit., qui p. 14. 321 D. Brolli, Le favole cambiano, in AA. VV., Gioventù cannibale. La prima antologia italiano dell’orrore estremo, a cura di D. Brolli, Torino, Einaudi, 1996, pp. V-X, qui p. VII. 322 Cfr. E. Mondello, In principio fu Tondelli. Letteratura, merci, televisione nella narrativa degli anni Novanta, Milano, il Saggiatore, 2007. 323 G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 303-305. **Leonardo Agostini** ,_“Frigidaire” e il tramonto della Modernità. Una rivista per ri/vedere l’universo contemporaneo_ , Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari – Venezia, Anno Accademico 2023-2024 Share:
adrianomaini.altervista.org
November 17, 2025 at 8:35 PM
Due saggi definiscono come terminus a quo il biennio 1967-1968 per cominciare a determinare una connessione tra fotografia e arte adrianomaini.altervista.org/du…
Due saggi definiscono come terminus a quo il biennio 1967-1968 per cominciare a determinare una connessione tra fotografia e arte
**Combattimento per un’immagine (1973)** L’analisi di Marra, come denunciato già nello stesso sottotitolo del volume, prende spunto dalla mostra, di fondamentale importanza, _Combattimento per un’immagine. Fotografi e pittori_ , ordinata alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino tra marzo e aprile del 1973, da Luigi Carluccio e Daniela Palazzoli (Carluccio-Palazzoli 1973). A partire da questo paradigmatico esempio Marra prende le mosse per la stesura del suo volume, distaccandosene esplicitamente: “Nella visione a suo tempo proposta da Carluccio e Palazzoli pittura e fotografia coprirebbero esattamente la stessa area di identità, entrambe sarebbero fnalizzate all’idea di opera come immagine” (Marra 1999, p. 8). Proprio come Marra partiremo da questa mostra per gettare uno sguardo tra i cataloghi di alcune significative mostre sul tema arte-fotografia, appuntando alcuni aspetti che ci saranno utili nello sviluppo della nostra ricerca. Analizzando il catalogo della mostra del 1973, che presenta come prima opera (escludendo la copertina) l’ _Odalisca_ di Eugène Delacroix del 1857, è evidente come il criterio di ordinamento sia di carattere cronologico. Dopo il dipinto già citato, il catalogo procede con una sequenza di opere d’arte che rimandano all’uso della fotografa come strumento di evoluzione della tavola pittorica (Peto John, Hoch Hannah, Max Ernst, Jacquet Alain e Wesselman Tom). Le immagini successive danno il via al vero percorso della mostra a partire da alcune tecniche di riproduzione della realtà illustrate tramite xilografie di Albrecht Dürer, seguite da quadri del Canaletto. Opere inserite dagli autori con l’intenzione di riprendere una già consolidata revisione storica della nascita della tecnica fotografica, in continuità con l’evoluzione della _camera obscura_ <8. Il percorso prosegue con diverse immagini più propriamente legate alla storia della fotografia, con esempi dei primi fotografi, come Joseph Nicéphore Nièpce, Henry Fox Talbot, David Hill e Robert Adamson. Seguono le composizioni fotografiche di Henry Robinson e Oscar Rejlander – che si innestano nell’ambito della fotografia pittorialista -, alcuni esempi di ritrattistica, per entrare, con Gustave Le Gray e Felix Nadar, nel vivo del discorso, grazie al confronto tra la fotografia e la pittura impressionista. Da qui si dipana il complesso “combattimento per un’immagine” che giunge sino ai primi anni Settanta del Novecento. La mostra è, soprattutto per la parte relativa al Novecento, il frutto di una ricerca impostata sul binomio arte-fotografia così come citato in principio di questo capitolo. Altre scelte di opere sembrano basarsi più che altro su analogie formali, o somiglianze del soggetto rappresentato, tra fotografie e opere. Una lunga sequenza di fotografia di guerra e di fotografia sociale a cavallo tra Ottocento e Novecento vuole invece promuovere il valore in sé della fotografia storica documentaria. Un approccio a volte fin troppo semplicistico, pur nelle oltre 500 opere esposte, come lascia intendere la stessa curatrice nel testo di introduzione del catalogo: “Pittura e fotografia sono presentate per la prima volta in un Museo l’una di fianco all’altra, con peso e presenza paritetici, per instaurare un dialogo” (Carluccio-Palazzoli 1973, s.p.). Un dialogo spesso sflacciato e incomprensibile, in cui risalta una certa superfcialità nel trattare gli accostamenti tra fotografie e opere, che ha dato adito a numerose critiche già all’epoca della mostra <9. Senza entrare nel merito dell’analisi sistematica dei problemi specifci della mostra e della _querelle_ che ne seguì, si fa notare come – tra i nomi riconducibili al periodo d’interesse di questa ricerca – siano presenti non pochi artisti associabili alla cerchia dell’Arte povera (Giulio Paolini o Giuseppe Penone) e solo Franco Vaccari e Ugo Mulas (rappresentato con la serie _Verifiche_) tra coloro che sono oggi rintracciabili nei libri di storia della fotografia italiana per il secondo Novecento <10. Sebbene criticabile sotto molti punti di vista, _Combattimento per un’immagine_ è un tentativo pionieristico di trattare i rapporti tra arte e fotografia, all’insegna di un atteggiamento di rivalutazione della fotografia in ambito istituzionale e storico-artistico. Alla base di questa rivalutazione sta, come si è già detto, un’impostazione che sposta la fotografia nell’ambito dell’arte per valutarne l’artisticità, sempre come assimilazione alle arti tradizionali. Impostazione che, volutamente o no, si è trascinata nel corso dei decenni e dei volumi di storia della fotografia e di storia dell’arte in Italia, dando spunto ad altre iniziative espositive affini che vaglieremo attraverso alcuni esempi significativi. _Combattimento per un’immagine_ , per quanto esempio di assimilazione della fotografia all’arte, assume un particolare rilievo essendo la prima mostra che introduce il binomio arte-fotografia in Italia, divenendo un esempio per le future rifessioni sul tema. **Da Brancusi a Boltanski. Fotografie d’artista (1993)** Leggermente diversa, per le intenzioni e per le collezioni da cui attinge, la mostra _Da Brancusi a Boltanski. Fotografie d’artista_ , organizzata al Castello di Rivoli di Torino esattamente vent’anni dopo la precedente, con la curatela di Alain Sayag e Agnès de Gouvion Saint-Cyr (Sayag-Gouvion Saint-Cyr 1993). Anche in questo caso, pur partendo da alcune fotografie di Costantin Brancusi alle sue opere (intese tuttavia come opere in sé), e pur restando sul crinale della fotografia artistica in ambito francese <11, la mostra sfocia in una sequenza di fotografie dalla spiccata ricerca di artisticità, prodotte nel circuito artistico tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento. Gli intenti curatoriali sono formulati in maniera chiara dagli stessi curatori: “Quel che è qui in gioco non è tanto il modo in cui la fotografia ha infuenzato la pittura […] quanto piuttosto il campo ancora poco esplorato di una pratica pittorica della fotografia” (Sayag-Gouvion Saint-Cyr 1993, p. 11). L’interesse per questa mostra, che rispetto alla precedente non ha intenzioni né antologiche né metodologiche, risiede in primo luogo nelle istituzioni che la organizzano (il Centre Georges Pompidou e il Fonds National d’Art contemporain) e nella legittimazione che ne deriva per la fotografia stessa come pratica artistica (cfr. Morel 2004). Altro aspetto che si intreccia con il primo è la rivendicazione dell’arretratezza del circuito della fotografia rispetto all’arte più tradizionale. Il principale curatore e, all’epoca, direttore delle collezioni fotografiche del Centre Georges Pompidou, Alain Sayag, nell’introdurre il catalogo si premura di ripercorrere la storia della musealizzazione della fotografia artistica in Francia, fino a indicare l’evoluzione della spesa del museo francese per l’acquisto di opere fotografiche, dal 1981 al 1987, anni in cui viene a costituirsi la sua prima collezione fotografica (Sayag-Gouvion Saint-Cyr 1993, p. 14). Un regesto di spesa che da una parte si potrebbe interpretare come un suggerimento alle istituzioni italiane, e dall’altra come un’attestazione implicita delle difcoltà a considerare la fotografia come oggetto da collezione anche per le più avanzate istituzioni museali francesi. Nondimeno un’introduzione tutta basata sul ruolo che le istituzioni pubbliche devono rivestire nei confronti della fotografia e della sua conservazione e valorizzazione. Queste informazioni ci verranno utili più avanti, quando parleremo dell’importanza del processo di istituzionalizzazione della fotografia in Italia. **Fotografia e arte in Italia. 1968-1998 (1998)** Altra esposizione nel solco dello schema tracciato fino ad ora è _Fotografia e arte in Italia. 1968-1998_ , ordinata a Modena tra il 20 settembre 1998 e il 10 gennaio 1999 (Guadagnini-Maggia 1998). L’intenzione dei curatori è in questo caso spostata maggiormente su di un versante storico-fotografico, alla ricerca di un flo conduttore tra le ricerche artistiche della fne degli anni Sessanta, che includono la presenza della fotografia come strumento concettuale o espressivo, e le pratiche fotografiche del decennio successivo <12, mirate alla definizione di un linguaggio fotografico autonomo. Tra le ragioni della mostra, Filippo Maggia constata: “Una nuova stagione sembra palesarsi per la fotografia italiana, anch’essa infine assurta ad arte non più minore” (p. 11). La mostra dunque si prende in carico il compito di tracciare il percorso verso questa ascesa, cercando di includere in un unico ambito artisti e fotografi che hanno operato in contesti apparentemente distanti: “Sorprende infatti, nello scorrere le immagini, l’inattesa contestualità operativa di autori come Pistoletto e Fontana, Anselmo e Jodice, Ontani e Ghirri o, ancora, Penone e Radino” (p. 11). L’intento della mostra è chiaro e dichiarato: i curatori mirano a superare la soggezione dell’ambiente fotografico nei confronti di quello artistico – ciò che fn qui abbiamo defnito come “assimilazione” del primo nel secondo. Così si può leggere in introduzione: “l’handicap della nostra fotografia, e critica, è quello di immaginarsi sempre come ospite dell’arte, mai parte integrante di essa, quale realmente è ormai da tempo” (p. 14). Questo “handicap” è dovuto non a delle effettive carenze di contatto tra arte e fotografia, ma a una mancanza delle istituzioni: “A differenza di altri Paesi ove l’arte fotografica ha una sua collocazione istituzionale precisa da anni, in Italia la fotografia viene celebrata con grave ritardo” (p. 14). Tuttavia per riuscire a definire meglio il contesto in cui poter associare le opere, e per indagare i veri strumenti per la costruzione del percorso espositivo, pare più utile soffermarsi sui cinque brevi saggi presenti in calce al catalogo, apparentemente – ma solo apparentemente – scollegati dalla mostra. In questi testi vengono presi in esame alcuni aspetti salienti delle ricerche storiche e metodologiche in ambito fotografico, tra cui il collezionismo in fotografia, i rapporti tra critica d’arte e fotografia negli anni Settanta e gli aspetti teorici della fotografia come arte visiva. Da questi testi emerge una considerazione comune: eccezion fatta per alcuni sporadici avvicinamenti tra le due discipline nell’arco di tempo considerato dalla mostra, la fotografia, sia a livello critico-teorico che operativo, si è sviluppata in un contesto distante dall’arte. Le istituzioni preposte non hanno mai operato progettualmente per ridurre questa distanza. Tra i saggi citati entra maggiormente nel merito del discorso Guido Costa che, pur in un’analisi dai toni quanto mai sconfortanti, descrive il mercato della fotografia focalizzandosi sull’utilizzo dello strumento da parte degli artisti contemporanei. Questo mercato si sviluppa grazie “a un’evoluzione generale nell’arte e nei suoi strumenti espressivi, che sempre di più hanno legittimato il mezzo fotografico come tecnica importante dell’“arte alta” […]. Attraverso questa sorta di garanzia, persino i documenti più classici dell’arte fotografica, in quei primi anni ’70 già centenaria, trovano una qualche attenzione, confuendo dai “territori infidi dello sperimentalismo o della ‘memoria storica’, a quelli più codificati del bello”; e l’autore fa esplicitamente riferimento alla Concettuale, alla Pop Art e all’Arte povera (Guadagnini-Maggia 1998, pp. 119-120). Approfondisce la cronologia Emanuela De Cecco, che si propone di registrare due momenti fondamentali per quanto riguarda l’entrata della fotografia nell’arte: “nella prima fase, a cavallo del ’68, si verifca un momento di apertura nei confronti della fotografia […]; la seconda fase comprende un momento lungo e complesso che prende via con una rinnovata attenzione alla pittura astratta (di cui ci sono segnali già intorno al 1973)” (pp. 126-127). Nel paragrafo successivo, l’autrice attribuisce una certa rilevanza alla costituzione di quattro nuove riviste d’arte contemporanea (_Qui arte contemporanea_ , 1966; _Flash Art_ , 1967; _NAC_ , 1968; _Data_ , 1971) e alla pubblicazione in Italia del testo di Walter Benjamin, _L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità_ nel 1966. Questi due saggi definiscono come terminus a quo il biennio 1967-1968 per cominciare a determinare una connessione tra fotografia e arte. Vedremo, nei capitoli seguenti, come questa cronologia possa valere anche per le nostre rifessioni attorno allo sviluppo di temi più inerenti all’ambito fotografico italiano. **Al limite. Arte e fotografa tra gli anni Sessanta e Settanta (2006)** Un’impostazione simile alla mostra di Modena, pur priva di un’analisi sul problema e dedicata a un contesto internazionale, si può riscontrare nel catalogo della mostra _Al limite. Arte e fotografia tra gli anni Sessanta e Settanta_ , curata da Angela Madesani per la rassegna _Reggio Emilia Fotografia Europea_ del 2006 (Madesani 2006). La curatrice introduce l’argomento della mostra: “La fotografia è mezzo privilegiato dell’arte lungo tutto il corso del XX secolo. Grazie alla sua peculiarità tecnica, alla sua indicalità, per usare un termine mutuato dalla semiotica e in particolare da Peirce, è il mezzo più adatto per fermare, documentare, entrare in un certo tipo di situazioni” (p. 13). Nella mostra ordinata da Madesani troviamo i nomi degli artisti esposti nel 1973 (ad esempio Anselmo, Fabro, Mulas, Vaccari), insieme al solo Boltanski del catalogo del 1993 (ma altri avrebbero potuto presenziare) e a numerose presenze dell’esposizione del 1998, con l’aggiunta di alcuni fotografi ormai giunti a notorietà come la coppia Bern e Hilla Becher o artisti che hanno usato il medium fotografico nell’arco cronologico coperto dalla mostra. Una rassegna, questa, che include esperienze oramai storicizzate e consolidate all’interno del discorso sulla convergenza tra fotografia e arte. Rispetto alla precedente mostra, considerando anche il respiro internazionale di quella organizzata da Madesani, la novità si può rintracciare in una scelta di opere relative a un periodo più ristretto, che copre soprattutto gli anni Settanta, con qualche eccezione per il decennio precedente. Pur non defnendo una cronologia specifica, nell’introduzione al catalogo l’autrice introduce i termini cronologici, già specificati nel sottotitolo: “La seconda metà degli anni Sessanta è stato un periodo assai importante per l’arte che ha segnato la storia della minimal art, dell’arte concettuale, della land art, dell’arte povera, della body art, dell’arte ambientale, in cui la fotografia e gli altri media hanno occupato un ruolo fondamentale. Gli anni Settanta, dal canto loro, hanno significato una reale trasformazione della società e dei comportamenti delle persone”. (p. 13) In una seconda prefazione al volume, Vittorio Fagone propone una sorta di continuità tra _Al limite_ e due mostre da lui curate (cfr. Fagone-Masini 1974 e Colombo-Fagone 1977), giustificata dalla presenza dei medesimi artisti. Tuttavia il saggio non ci informa di più sul contenuto della mostra o del catalogo. Per quanto riguarda più specificamente le analisi che svilupperemo nel proseguo di questa tesi, potrebbe essere significativa la scelta di Madesani di inserire nella mostra alcune sequenze fotografiche, e in particolare il provino di Ugo Mulas del 1970 relativo all’allestimento di Jannis Kounellis realizzato per la mostra _Vitalità del negativo_ (cfr. Sergio 2010, p. 35), qui presentata perché scelta dall’autore tra le sue _Verifiche_. Altro tema qui testimoniato, che potrebbe essere di nostro interesse, ma che non tratteremo perché esula dal nostro arco cronologico, è la _performance_ , rappresentata da _Feu_ di Gina Pane del 1971. La sequenza, firmata dall’artista e impaginata come provino – secondo una modalità che come vedremo avrà i suoi esordi, in ambito fotografico, proprio negli anni Sessanta -, è composta con fotografie di Giorgio Colombo (fotografo che ritroveremo nel sesto capitolo tra i principali fotografi d’arte italiani). La mostra della Madesani prende le mosse dal binomio arte-fotografia, considerandolo ormai come punto di vista cristallizzato, senza problematizzarlo e senza che siano introdotti elementi di ambiguità. [NOTE] 8 Tra le storie della fotografia pubblicate in Italia prima del 1973: Gernsheim 1966, Newhall 1969 e Settimelli 1970. 9 Cfr. il § Combattimento per un’immagine, in Russo 2011, p. 237-241, per una prima panoramica delle voci critiche in ambito fotografico. 10 Nello stesso anno Palazzoli curava la sezione fotografica di Contemporanea, Incontri Internazionali d’arte – Parcheggio di Villa Borghese, Roma 30 novembre 1973 – febbraio 1974, in cui, attenendosi a un indirizzo di scelta di soli fotografi, esponeva di fatto buona parte degli autori già esposti a Torino, con l’aggiunta di Mario Cresci per quanto riguarda i fotografi italiani. 11 Le opere presentate nella mostra provenivano dalle collezioni del Musée National d’Art Moderne – Centre Georges Pompidou e del Fonds National d’Art contemporain. 12 Introducendo una suddivisione cronologica di questo sviluppo, Guadagnini individua nel decennio 1974-1984 un periodo in cui “il mondo fotografco [aveva] potuto afnare i propri strumenti, radicare il proprio linguaggio, […] costruire quell’humus che, nel 1984, porterà a Viaggio in Italia, momento epocale […]” (p. 9). **Roberto Del Grande** , _L’immagine dell’arte a Milano negli anni Sessanta. L’archivio del fotografo d’arte Enrico Cattaneo tra il 1960 e il 1970_ , Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2013-2014 Share:
adrianomaini.altervista.org
November 16, 2025 at 11:01 AM
Sempre a partire dal 1951, iniziò ad operare un altro organismo interno alla Nato collasgarba2.altervista.org/se…
Sempre a partire dal 1951, iniziò ad operare un altro organismo interno alla Nato
Un altro organismo che prese parte attiva nella guerra non ortodossa al comunismo fu, fin dalla sua creazione, la Nato stessa, che diede luogo ad una profonda revisione dei sistemi di sicurezza e di difesa statunitensi, con particolare riferimento alle operazioni clandestine condotte nei paesi dell’Europa occidentale <221. Attraverso protocolli segreti, la Nato assegnava ai servizi segreti dei paesi firmatari compiti di guerra non ortodossa contro il comunismo <222. Nel settembre 1951, ad Ottawa, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia crearono lo Standing Group, un comitato d’emergenza e direzione militare interno alla Nato, creato con lo scopo di dividere gli scacchieri militari in “gruppi regionali di operazioni”, e tra i cui compiti rientravano anche quelli relativi alla pianificazione di una strategia di guerra non convenzionale <223. Sempre a partire dal 1951, iniziò ad operare un altro organismo interno alla Nato nell’ambito della guerra non ortodossa: il Clandestine Planning Committee (Cpc), nato dall’approvazione di una direttiva del Saceur (Supreme Allied Commander in Europe) <224, da parte di Eisenhower, allora comandante delle forze Nato presso il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (Shape) con sede a Bruxelles. Il Cpc aveva lo scopo di pianificare, preparare e dirigere guerre clandestine condotte da Forze speciali e dalla Stay Behind net in Europa <225. Quest’ultima rappresentò una rete clandestina operante in tutti i paesi del Patto Atlantico allo scopo di impedire l’espansione del comunsimo in Europa occidentale e, in caso di aggressione esterna, di organizzare la resistenza in ottemperanza della dottrina Nato della “difesa arretrata e manovra in ritirata” <226. [NOTE] 221 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2008, p. 38. 222 P. Willan, I Burattinai. Stragi e complotti in Italia, Napoli, Tullio Pironti, 1993, p. 33. 223 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 788; G. Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014, p. 178. 224 Il Saceur nacque come il comando unficato supremo, con uno stato maggiore (lo Shape), che riuniva gli ufficiali dei diversi paesi alle dipendenze dell’autorità comune della Nato. 225 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 39. 226 Tale dottrina prevedeva che fosse lasciata, “all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario, per poi rallentarne l’avanzata e logorarlo”. Lo scopo era quello di far arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da cui sarebbe partita la controffensiva. In estrema sintesi, quindi, tale dottrina comportava la nascita di determinate strutture paramiliari che, “anziché cercare di respingere sul nascere un’invasione e rischiare di essere decimati fin da subito, rimanessero “in sonno” per alcune ore, lasciando avanzare il nemico per poi prenderlo alle spalle”. G. Pacini, Le altre Gladio.p. 179. **Letizia Marini** , _Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974_ , Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020 Il nuovo sistema di alleanze che si venne a creare successivamente al secondo conflitto mondiale e che, pian piano, portò alla nascita del Patto citato fu l’inevitabile corollario della rottura di fatto che si produsse tra l’URSS e gli Occidentali nel 1947. Fino a quell’anno, infatti, i trattati di alleanza conclusi in Europa occidentale videro come loro unico comune denominatore la lotta alla Germania <17. Fu solo nel gennaio del 1948 che la Francia e l’Inghilterra paventarono ai tre paesi del BENELUX l’ipotesi dello studio di un patto politico. Dal 4 al 12 marzo 1948 si riunì a Bruxelles una conferenza, nel corso della quale i paesi del BENELUX insisterono affinchè il patto politico fosse integrato con impegni militari. Il testo elaborato dalla conferenza fu firmato il 17 marzo a Bruxelles dopo essere stato approvato dai governi contraenti. Il trattato prevedeva un’assistenza automatica in caso di aggressione contro uno dei firmatari in Europa, e consultazioni in caso di aggressione in un altro continente o in caso di minaccia della Germania ed era valido per 50 anni. Prevedeva un “Consiglio Consultivo” che si sarebbe riunito su domanda di uno dei membri ed inoltre era prevista una cooperazione economica, sociale e culturale fra i partecipanti. Fu proprio dopo la firma del patto di Bruxelles, che si fece strada l’idea di costituire un sistema di difesa tra i firmatari e gli Stati Uniti. La vera rivoluzione della politica estera degli Stati Uniti avvenne l’11 giugno, quando la “risoluzione Vandenberg <18” autorizzò esplicitamente il governo americano a concludere alleanze in tempo di pace al di fuori del continente americano. Nel corso dell’estate, si cominciò a parlare di un eventuale “Patto atlantico” che raggruppasse l’Unione di Bruxelles, gli Stati Uniti ed il Canada. Il Trattato del Nord Atlantico <19 sarebbe stato un organismo internazionale con la finalità di mantenere la pace rafforzando il meccanismo degli accordi regionali. La garanzia della continuazione di una politica estera attiva al di fuori dei confini americani fu confermata dalle elezioni americane che portarono alla rielezione di Truman. Così iniziarono i negoziati, venne istituito un comitato permanente di esperti, presieduto da Lovett, vice del generale Marshall. Trygve Lie, segretario generale dell’Organizzazione delle nazioni Unite, si mostrava molto reticente: “Se i popoli accettano che le alleanze regionali sostituiscano la sicurezza collettiva, la speranza di una pace durevole sarà gravemente colpita” egli diceva; aggiungeva, comunque, “gli accordi regionali possono essere uno strumento molto utile per la costruzione di un sistema di sicurezza collettiva se è riconosciuta la supremazia della carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite” <20. Ma, ad ogni modo, il Patto atlantico non sarebbe stato certamente in contraddizione con l’art 52 <21 della Carta delle Nazioni Unite, che riconosceva la possibilità di accordi o di organizzazioni regionali. Nel sud dell’Europa, Tsaldaris, Ministro degli Esteri di Grecia, propose a Bevin, il 21 febbraio 1949, di associare l’Inghilterra, la Francia, la Spagna, l’Italia e la Grecia per la difesa del Mediterraneo. Questo progetto non ebbe seguito. Il 15 marzo Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Stati Uniti e Canada invitarono la Norvegia, la Danimarca, l’Islanda, il Portogallo e l’Italia ad aderire al patto. Fatto unico nel suo genere, il testo del patto atlantico fu pubblicato il 18 marzo, prima di essere stato firmato, in modo da renderlo noto all’opinione pubblica dei vari Paesi. Si collocava nel quadro della strategia antisovietica ed anticomunista, dunque, l’alleanza che ebbe anche risvolti militari poi sanciti col patto Atlantico o North Atlantic Treaty Organization (NATO), i cui firmatari furono Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Italia, Islanda, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Stati Uniti <22. Il preambolo insisteva sul desiderio di pace delle parti contraenti, ma anche sulla loro determinazione a proteggere, con la forza, il regime democratico di tipo occidentale ed il dominio del diritto. Il trattato non fa che una rapida allusione (art. 2) alla necessità di un miglioramento del benessere per mezzo di un aiuto reciproco. L’essenziale è costituito dalla clausole militari. Occorre distinguere la minaccia e l’aggressione. In caso di minaccia (art. 4) le parti si consulteranno. E’ sufficiente, per definire la minaccia, che una delle parti dichiari che esista. In caso di aggressione in Europa, in America del Nord, in Algeria, contro una delle isole dell’Atlantico al nord del Tropico del Cancro, contro una nave o un aeromobile, appartenenti ad una delle parti contraenti, l’assistenza militare non è affatto automatica. Se si produce un tale evento, ciascuna parte, in stato di legittima difesa, conformemente all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, intraprenderà “al più presto, individualmente, e d’accordo con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego della forza armata, per ristabilire e garantire la sicurezza nella regione dell’Atlantico del Nord” (art 4 e 5). Così, ciascuna parte resta libera di decidere se la sua assistenza sarà militare, cioè se essa farà la guerra. Il principio secondo cui non vi sia incompatibilità tra il Patto Atlantico e la Carta delle Nazioni Unite e tutti gli impegni anteriori di uno degli alleati dall’altra è evidente negli articolo 7 ed 8 del Trattato. L’articolo 10 prevedeva che, perché un’altra potenza potesse far parte dell’alleanza, fu stabilita la necessità dell’accordo unanime dei contraenti. Fu stabilito che gli strumenti di ratifica sarebbero stati depositati presso il governo degli Stati Uniti e che, perché il trattato potesse entrare in vigore, sarebbe stata necessaria la ratifica della maggioranza dei firmatari, ivi compresi i primi sette stati negoziatori. (Art.10) Allo scadere dei 10 anni, avrebbe potuto aver luogo la revisione e, allo scadere dei 20 anni, una delle parti avrebbe potuto recedervi, dopo un necessario preavviso di un anno. Ma rilevante fu la questione relativa alla natura e lo spessore dell’impegno cui andavano incontro i contraenti: era necessario, in particolar modo per gli Stati Uniti, chiarire i ruoli che ciascun paese firmatario avrebbe dovuto assumere una volta siglata l’alleanza e una volta che si sarebbe verificato il casus foederis, l’evento che avrebbe causato la concretizzazione delle garanzie accordate. […] L’iniziale preferenza USA sarebbe stata quella di fornire una potenza aerea e forze terrestri supplementari per sostenere le forze europee sul campo mentre gli europei insistevano affinchè le forze USA fossero dislocate in prima linea in Europa, ovviamente per far sì che gli interessi degli Stati Uniti si trovassero coinvolti sin dalle primissime fasi dello scontro. A causa della percepita esigenza di limitare la spesa militare USA, come pure per l’incapacità degli alleati europei di dispiegare sufficienti forze convenzionali, l’amministrazione del Presidente Dwight D. Eisenhower insistette affinché l’Alleanza adottasse la risposta (nucleare) massiccia quale principale strumento di difesa collettiva, cosa che avvenne nel dicembre 1954. La strategia di “risposta flessibile”, in base alla quale la NATO prevedeva di reagire ad un attacco sovietico con qualsiasi mezzo, convenzionale o nucleare, si sostituì alla risposta massiccia quando questa fu messa a dura prova dall’acquisizione dell’Unione Sovietica di sistemi di vettori in grado di colpire obiettivi sul suolo statunitense. Gli Stati Uniti, data la pericolosità delle contingenze, convinsero gli alleati ad adottare tale linea che non soddisfò, però, mai del tutto né gli Stati Uniti stessi né gli alleati europei. L’Alleanza sopportò anni di battaglie e di dibattiti relativi alla ripartizione degli oneri relativi al dispiegamento dei nuovi sistemi nucleari. Si può comunque ritenere che, a dispetto di tutti i cambiamenti strategici, la deterrenza basata sull’impegno contenuto nell’articolo 5 si dimostrò valida sino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. [NOTE] 17 Basta citare i casi dei trattati franco-sovietico del 1944 e del trattato franco- britannico di Dunkerque del 1947. Sul punto: J.B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai giorni nostri, Ambrosiana, Milano, 1998, p. 444. 18 Tale risoluzione fu approvata l’11 giugno del 1948. 19 Agli Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia Belgio, Olanda, Lussemburgo, Italia, Danimarca, Norvegia, Islanda, Portogallo, si aggiunsero nel 1952 la Grecia e la Turchia e nel 1955 La Repubblica Federale tedesca; nel 1982 la Spagna; nel 1999 la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia; nel 2004 la Bulgaria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Romania, la Slovacchia e la Slovenia; nel 2009 la Croazia e l’Albania. 20 J. Duroselle, Op. cit, p. 446. 21 Carta delle Nazioni Unite- accordi regionali capitolo VIII – art. 52. Nessuna disposizione del presente Statuto preclude l’esistenza di accordi od organizzazioni regionali per la trattazione di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che si prestino ad un’azione regionale, purché tali accordi od organizzazioni e le loro attività siano conformi ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite. 2. I Membri delle Nazioni Unite che partecipino a tali accordi od organizzazioni devono fare ogni sforzo per giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di carattere locale medianti tali accordi od organizzazioni regionali prima di deferirle al Consiglio di Sicurezza. 3. Il Consiglio di Sicurezza incoraggia lo sviluppo della soluzione pacifica delle controversie di carattere locale mediante gli accordi o le organizzazioni regionali, sia su iniziativa degli Stati interessati, sia per deferimento da parte del Consiglio di Sicurezza. 4. Questo articolo non pregiudica in alcun modo l’applicazione degli articoli 34 e 35. 22 Ad essi si aggiunsero nel 1952 Grecia e Turchia; nel 1955, la Repubblica Federale Tedesca; la Spagna nel 1982, La Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria nel 1999; la Bulgaria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania e la Romania nel 2004, e l’Albania e la Croazia nel 2009. **Alessia Cherillo,** _I rapporti tra l’Unione Europa e la NATO_ , Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Anno Accademico 2011-2012 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
November 12, 2025 at 1:11 PM
“Il Comunista” di Morselli è sicuramente un libro che sarebbe potuto comparire nelle biblioteche degli italiani un decennio prima della sua effettiva pubblicazione adrianomaini.altervista.org/il…
“Il Comunista” di Morselli è sicuramente un libro che sarebbe potuto comparire nelle biblioteche degli italiani un decennio prima della sua effettiva pubblicazione
“C’è in Italia una biblioteca che bisogna ancora costruire: quella dei libri che non avremmo mai letto se Italo Calvino non li avesse consigliati. […] Una scheda di Calvino aveva la capacità di imporre in Italia uno scrittore ancora sconosciuto, perché si sapeva che il suo fiuto di lettore andava sul bersaglio sicuro”. <296 Viene da dire che la vicenda di Guido Morselli potrebbe far ripensare le sue parole a Giorgio Calcagno, che scrive quanto si è appena letto nel 1985. Perché, come rileva chiaramente Alberto Cadioli, il fiuto non basta quando un intellettuale diventa lettore editoriale. O meglio, anche bastasse, le scelte non riguardano soltanto l’intuito e il gusto. “Quando il critico diventa lettore editoriale, deve fare i conti, infatti, con la propria idea di narrativa, ma, d’altro canto, – proprio perché con un pubblico l’editore deve pure confrontarsi – deve anche fare i conti con la situazione del mercato. Aggiungendo poi che, oltre ogni considerazione commerciale, c’è una valutazione storica. Che rapporto c’è, dunque, tra il giudizio di “pubblicabilità” (o “non-pubblicabilità”) e gli anni in cui si svolge la consulenza? Che influenza ha, sulla lettura, la sigla dell’editore?” <297 Ecco che il discorso di Calcagno, se ci si riferisce a Guido Morselli, va completamente rovesciato: “quale biblioteca il lettore italiano non potrà mai consultare perché, via via che si succedevano le mode e le stagioni, i consulenti editoriali ‘imponevano’ un gusto, scartando le altre proposte italiane e straniere?” <298 “Il Comunista” di Morselli è sicuramente un libro che sarebbe potuto comparire nelle biblioteche degli italiani un decennio prima della sua effettiva pubblicazione. Il rifiuto di Calvino va inquadrato nel contesto dell’Einaudi all’altezza temporale del 1965, ma soprattutto e anche in relazione alla sensibilità del lettore editoriale in quel preciso momento storico ed alle posizioni politico-culturali con cui il libro in un certo modo interloquisce. Nonostante “Il Comunista” sia il romanzo di Morselli più apprezzato fra i lettori editoriali (Garboli scriverà da Mondadori “si può anche fare” <299 e Rizzoli arriverà quasi a pubblicarlo), si riportano alcuni passi significativi della lettera che Calvino spedisce a Morselli il 5 ottobre 1965 per disapprovare la pubblicazione del romanzo. “Caro Morselli, finalmente ho letto il Suo romanzo. […] La lettura dei manoscritti è un lavoro suppletivo […] che, quando si tratta di romanzi politici, faccio senza nessuna speranza. La politica continua a interessarmi, e così la letteratura (con tutto ciò che questo nome implica) ma dal romanzo politico non mi aspetto nulla, né in un campo d’interessi né nell’altro. Credo cioè che si può fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo di oggi. Trattando i problemi che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo. […] È chiaro che gran parte del mio giudizio è basato su questo a-priori”. <300 Quando si parla di Morselli e della mancata pubblicazione de “Il Comunista” per Einaudi, troppo spesso si tralascia questo incipit della lettera. Ci si sofferma su quanto Calvino spiega successivamente entrando nel merito del romanzo specifico. Le considerazioni sul romanzo in generale, però, con particolare scetticismo nei confronti dei romanzi che – nella forma della narrativa di finzione – affrontano un tema politico, sono fondamentali per comprendere e spiegare il rifiuto di Morselli. È bene ricordare che soltanto due anni prima Italo Calvino scriveva e pubblicava “La giornata d’uno scrutatore”, un romanzo saggistico con un tema politico. Nei due anni fra il 1963 e il 1965 cosa ha fatto convincere Calvino che la politica vada trattata nella forma dei saggi veri e propri, e non possa appartenere al romanzo di quel momento in quanto falso? Si è già detto quanto Guido Morselli in tutta la sua produzione narrativa abbia in realtà una scrittura organicamente filosofica e spesso utilizzi un linguaggio e lo stile più del saggio che del romanzo. Non sembrerebbe, quindi, inopportuno applicare il discorso di Calvino ai romanzi di Morselli e – proprio alla luce delle sue considerazioni – approvarne la riuscita. Se si legge uno scritto di Calvino del 1960, a proposito di oggettività e coscienza, ci si chiede incredibilmente come mai non abbia avuto lo stimolo ad applicare quegli stessi ragionamenti a “Il Comunista” e non abbia potuto giudicare il romanzo sulla base di idee e prospettive che furono sue e non avrebbero affatto stupito. Dell’opera di Morselli del 1965 avrebbe potuto dire lo stesso della sua “Giornata di uno scrutatore”: “un racconto che è più di riflessioni che di fatti” <301. “Dalla letteratura dell’oggettività alla letteratura della coscienza: così vorremmo orientare la nostra lettura d’una ingente zona della produzione creativa d’oggi, ora secondando ora forzando l’intenzione degli autori. Non da ieri ci siamo fatti una regola del cercare anche nei testi più lontani le ragioni di forza d’un nostro discorso, d’una nostra fedeltà. E oggi, il senso della complessità del tutto, il senso del brulicante o del folto o dello screziato o del labirintico o dello stratificato, è diventato necessariamente complementare alla visione del mondo che si vale di una forzatura semplificatrice, schematizzatrice del reale. Ma il momento che vorremmo scaturisse dall’uno come dall’altro modo di intendere la realtà, è pur sempre quello della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni”. <302 A questo proposito Anna Baldini dà una lucida e chiara lettura del contrasto fra le due posizioni di Calvino e Morselli, espresse in “La giornata d’uno scrutatore” – non definibile neanche dall’autore un vero “romanzo” – e “Il Comunista”, invece riflesso dell’idea morselliana del romanzo come confederazione di generi capace di assorbire tutte le forme dell’umano. L’opposizione fra i due ha sicuramente a che fare con tensioni collaterali all’ambiente letterario e riflesse nella repulsione per una certa forma di scrittura. “Il fastidio di Calvino è significativo della temperie politica e culturale dei primi anni Sessanta. Con i “fatti del 1956” [in Ungheria] e il distacco di molti intellettuali dal PCI si era esaurita una stagione di forte impegno dei letterati. Al riflusso politico si accompagnò quello dei moduli letterari proposti dalla politica culturale del Partito, fondati sul privilegio accordato alla narrativa realista e al predominio dei contenuti politici e sociali, progressisti o di denuncia. Ma la ricerca da parte degli intellettuali di nuove chiavi di lettura della realtà non era legata solo alla delusione politica. […] Il dibattito sul romanzo, nel quale si inseriscono le differenti posizioni di Calvino e Morselli, non è che un esempio della ricerca (formale) e dei ripudi (contenutistici) cui anche gli scrittori sono indotti dal tentativo di comprendere la nuova realtà”. <303 È appurato che le ragioni dell’insofferenza di Calvino per il genere-romanzo fossero radicate nella temperie storico-politica degli anni precedenti e fossero il segno di un cambio di paradigmi tanto dell’impegno degli intellettuali quanto della letteratura. Quello che preme dire, però, è che pur presentandosi come un romanzo, “Il Comunista” di Morselli non ha nulla di tradizionale nella gestione dei contenuti dell’opera, né tantomeno ha un approccio ormai retorico o troppo posizionato riguardo alla questione politica. A Morselli – come in fondo al Calvino de “La giornata di uno scrutatore” – interessa ciò che sta oltre la vicenda del comunista Walter Ferranini, non il valore politico in sé. [NOTE] 296 CALCAGNO GIORGIO, Ecco gli appunti di un Grande Suggeritore, in “Tuttolibri Torino”, 21 settembre 1985. 297 CADIOLI ALBERTO, Lettura e scelta editoriale a Milano, in “Belfagor”, 30 settembre 1986, XLI, 5, p. 563. 298 Ivi, p. 562. 299 BAUDINO MARIO, Il gran rifiuto, cit., p. 111. 300 CALVINO ITALO, Lettera a Guido Morselli, 5 ottobre 1965, cit., p. 525. 301 IDEM, Nota dell’autore in IDEM, La giornata di uno scrutatore, Mondadori, Milano, 2020, p.2. 302 IDEM, Il mare dell’oggettività, in “Il menabò di letteratura”, 2, 1960, ora in IDEM, Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 2018, pp. 55-56. 303 BALDINI ANNA, Le ragioni dell’inattualità. Il Comunista di Morselli e La giornata di uno scrutatore di Calvino, in “Allegoria”, XVII, 49, gennaio-aprile 2005, pp. 200-201. **Noemi Iacoponi** , _Un narratore integrale: uno studio su Guido Morselli_ , Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2022-2023 Share:
adrianomaini.altervista.org
November 11, 2025 at 9:06 AM
Evocata che l’ho a cena l’altra sera con Luchino adrianomaini.altervista.org/ev…
Evocata che l’ho a cena l’altra sera con Luchino
Matsuo Bashō. Foto: Yosa Buson. Fonte: Wikipedia [* marginale XVII] Ma va’ a magnà er sapone / leggo in un esercizio // lo diceva il Maestro Sanguineti scriveva / di un uomo sopravvivono ma dieci frasi forse Mettendo tutto insieme //a un anno dalla morte questo mi sopravvive Riemerso chissà come chissà quando dalla palude della memoria Ed è già tanto 14.IV.22 Ad discipulos Letture libere // leggere almeno un libro o almeno un paio / possibilmente di autore italiano In italiano / in prosa o in poesia // avete all’incirca tre mesi di tempo / se non rimandate Orsù leggete 9.VI.22 [* marginale XXI] C’era mio nonno il giorno del concorso / l’ho visto proprio lì davanti a me // ha alzato tutte e due le dita / l’indice E il medio / come per dire / ficcagliele sotto la gola / come feci io alle case popolari E poi c’era quell’altro mio nonno / con entrambe le mani dietro la schiena // come l’ho sempre visto fare allora E poi c’era mia nonna sulle scale / era appena arrivata // passata la buriana Me la son ritrovata seduta al tavolino del caffè // cosa bevi le chiesi Fai te 15.V11.22 [* marginale XXIII] Gli voglio troppo bene al caro Inno / anche se mi fa piangere di gioia [….] [……] ieri sera ad esempio / che mi ha donato a tradimento i Zin Di Fabio Barricalla 4.VIII.22 [* marginale XXIX] Evocata che l’ho a cena l’altra sera con Luchino / Deborah mi mipiaccia una fotina Non la sentivo e sento dall’altro secolo // iersera con Camillo Che mi ha invitato per il suo compleanno / voleva leggersi Degli haiku giapponesi // mio libro-dono / pescato a caso in libreria Cento haiku di Bashō // […………] Non è che me lo spieghi razionalmente / perciò non me lo spiego Mi tengo il mistero 20.IX.22 **Fabio Barricalla** ,_Familiares. Specimina ’21-’23,_ Fondazione Pata, giugno 2025 Share:
adrianomaini.altervista.org
November 9, 2025 at 6:37 AM
Reposted by Adriano Maini
Manifestazione antifranchista e lotte per la terra a Roma tra dicembre 1949 e marzo 1950 http://storiaminuta.altervista.org/manifestazione-antifranchista-e-lotte-per-la-terra-a-roma-tra-dicembre-1949-e-marzo-1950/
November 6, 2025 at 8:42 AM
Il 1968: fragilità del sistema politico e origini del “consociativismo” collasgarba2.altervista.org/il…
Il 1968: fragilità del sistema politico e origini del “consociativismo”
Il 1968 fu un anno di passaggio fondamentale poiché il sistema politico, a seguito delle elezioni del maggio 1968, crebbe in fragilità e per la società italiana il rapporto con il sistema istituzionale s’indebolì in modo notevole. Alle elezioni i socialisti si presentarono con un partito frutto della fusione tra Partito Socialista Italiano e Partito Socialista Democratico Italiano. Non ottennero il risultato sperato e subirono una pesante sconfitta. <1 Il partito unificato, rispetto alle elezioni precedenti, perse circa un quarto dei voti ma il grande calo socialista era uno dei segnali del fallimento del centrosinistra, determinato anche dal massiccio cambiamento di cui era stato vittima come conseguenza delle azioni dell’Unione Sovietica <2 in Cecoslovacchia nello stesso anno, ma tutto ciò ne aveva cambiato solo la veste esterna senza innovarlo nei contenuti e nelle prospettive. Dopo l’invasione di Praga le dinamiche politiche interne al PCI subirono una brusca accelerazione. Longo, provato dallo scontro con i sovietici, fu colpito da un ictus, restando menomato fisicamente, anche se non inabile e perfettamente lucido mentalmente. La “vecchia guardia” del PCI cercò un compromesso con il PCUS: il partito, sostenevano, non era pronto per una rottura con l’URSS. Della qual cosa era consapevole anche Berlinguer, che, infatti, aveva ipotizzato una campagna di massa dentro il PCI per preparare gli iscritti (parecchie centinaia di migliaia) e gli elettori (nelle elezioni del maggio 1968 i comunisti italiani avevano avuto un notevole successo elettorale, raggiungendo un quarto dei voti totali) a un allontanamento dall’Unione Sovietica. L’operazione doveva essere fatta solo con gradualità, per evitare che i sovietici favorissero la nascita nel PCI di una frazione scissionista a loro favorevole <3. Nel frattempo, nell’area di destra vi fu un calo di consensi per la componente liberale, che ottenne comunque buoni risultati arrivando al 5,8% alla Camera e al 6,7% al Senato <4. In questo quadro, è Aldo Moro che paga maggiormente i costi di una situazione insoddisfacente per i partiti della coalizione di maggioranza, con i partiti socialisti incerti circa la continuazione della collaborazione governativa. Durante la precedente IV legislatura vi era stato l’alternarsi di tre governi presieduti da Moro e sostenuti dal quadripartito DC-PSI-PSDI-PRI. <5 L’alleanza, che era nata con l’intenzione di sfruttare il boom economico per realizzare un welfare efficiente in favore dei ceti sociali più bassi, mancò il suo obiettivo e si ridusse in una coalizione litigiosa che produsse malcontento <6. Il Presidente della Repubblica Saragat, dopo il fallimento del tentativo del Segretario politico della DC Mariano Rumor di ricostituire un governo di centro-sinistra <7, ripropose la soluzione di Giovanni Leone, al suo II° dicastero, in attesa delle decisioni interne ai socialisti. Fu un monocolore democristiano che durò da giugno a novembre 1968. Nel Consiglio nazionale della DC del novembre 1968, Aldo Moro annunciò la sua decisione di assumere una sua autonoma posizione dentro il partito (nacquero così i morotei), e dopo l’instaurazione della leadership di Francesco De Martino dentro il PSI, favorevole alla ripresa della collaborazione governativa di centro-sinistra, nel dicembre 1968 Mariano Rumor costituì il suo I° Governo, un tripartito di centro-sinistra con socialisti e repubblicani <8. Parallelamente nel Paese esplosero la rivolta studentesca e gli scioperi sindacali. Il movimento studentesco, con l’occupazione delle università, nacque all’interno della borghesia, nei ceti benestanti, intrisi di ideologia marxista e leninista, mentre i grandi scioperi del cosiddetto “autunno caldo” <9 (preludio del periodo storico degli “anni di piombo”) nacquero viceversa dentro le fabbriche, da una base operaia e lavoratrice <10. La questione operaia esplose con una forza che né imprenditori e né operai avevano immaginato, contestando la pessima organizzazione del lavoro e il mancato rinnovo dei contratti: la battaglia contrattuale era il punto di partenza di una battaglia. Il risultato combinato fu l’instaurarsi di un clima esasperato di contestazioni e rivendicazioni che scosse la società e la classe politica, facendo da un lato crescere il peso ed il ruolo dei sindacati anche nella politica e non solo nelle relazioni industriali, e, dall’altro, facendo consolidare in vari movimenti l’ideologia e la scelta politica di andare oltre la semplice contestazione universitaria, ed arrivare, nei successivi anni settanta, alla creazione di una cultura eversiva contro le istituzioni che porterà anche al fenomeno del terrorismo <11. Nel 1968 furono occupate, sgomberate e rioccupate la Sapienza di Pisa, Palazzo Campana a Torino, la Cattolica di Milano, e poi Architettura a Milano, Roma e Napoli. Nella facoltà di Sociologia di Trento praticamente non si riuscì a tenere nessun corso, perché i suoi locali erano permanentemente occupati. <12 Nessuna forza politica poteva dirsi rappresentante di questo movimento studentesco ma diverse tentarono di appropriarsene. Il PCI era il più vicino alle cause della protesta ma questa posizione fu rincorsa anche dall’ala più a sinistra del PSI riunitasi nel Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria che, credendo nell’unità della classe operaia, rifiutò l’alleanza con la DC e strinse solidi rapporti con i comunisti, formando proprio in vista delle elezioni del 1968, liste uniche al Senato. Proprio per questo, il PSI intrecciò relazioni con i socialdemocratici, fino alla decisione di creare una lista unica, il PSI-PSDI unificati, che raccogliesse tutti i socialisti moderati. Tutto questo ribollire di proteste e risentimenti sarebbe esploso in modo “estremo” il 12 dicembre del 1969, in Piazza Fontana presso la Banca dell’Agricoltura di Milano; una bomba piazzata nel salone centrale della banca fu l’inizio dell’era del terrorismo italiano e di quella che è chiamata la «strategia della tensione». <13 Data la situazione instabile, Aldo Moro sottolineò le energie nuove che venivano emergendo, specie tra i giovani e le donne, e cercò vie nuove per valorizzarle sul piano politico. Cruciale gli apparve in questo senso la formulazione di un nuovo rapporto con il PCI e con i socialisti <14. Moro parlò allora di “tempi nuovi” che chiedevano alla politica un’inedita capacità di comprensione e, pur senza mutare i rapporti politici tra i partiti, avviò un dialogo con i comunisti. Nacque di qui la sua “strategia dell’attenzione” <15, la cui importanza fu subito colta da alcuni dirigenti del PCI, in particolare dall’allora vicesegretario del partito, Enrico Berlinguer. <16 Al centro del pensiero di Moro, non vi era più una maggioranza concentrata esclusivamente su se stessa ma l’idea di un processo ancora più pluralistico di gestione del potere, più di quanto già non fosse, che avrebbe dato inizio al “consociativismo”. Quest’ultimo è, per definizione, un sistema di governo in cui si attua una convergenza tra partiti di maggioranza e partiti di opposizione, una prassi politica che consiste nella collaborazione tra partiti diversi per una comune gestione del potere. <17 L’apertura al dialogo di Moro andava però a scontrarsi con il fatto che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i comunisti erano tenuti fuori dal governo. Era in atto, infatti, il fattore K <18 o la cosiddetta “Conventio ad excludendum” che prevedeva l’esclusione per principio dal governo di una forza (il PCI) che non solo si rifaceva all’URSS, ma aveva anche il progetto di abolire dei pezzi essenziali della società liberale, come la proprietà. Moro aveva compreso il senso di quali fossero i cambiamenti politici e sociali del tempo, tutto ciò che avevano messo in luce la rivolta studentesca e le rivendicazioni sindacali. Egli fu in quegli anni, infatti, uno degli uomini della DC più abili nel decifrare il significato di questi fenomeni. Egli intendeva attuare il passaggio da una società retta sulla base di un’autorità compatta e quindi costruita verticalmente in cui le decisioni erano in mano a una o poche persone (ed il resto dei componenti della società era quasi estranei alle scelte da affrontare) ad una autorità aperta e quindi, continuando la metafora, disposta in modo orizzontale in cui nessuno fosse più importante dell’altro, dove tutti fossero partecipi delle decisioni da prendere <19. Si avanzava un’idea di una “società dei diritti” la cui realizzazione dovesse essere compito del sistema politico-istituzionale e per cui si richiedeva un’unità d’intenti che andava messa in atto. [NOTE] 1 Risultati Camera dei Deputati: DC 39,12%, PCI 26,90%, PSU 14,48% risultati Senato della Repubblica: DC 38,34%, PCI 30,00%, PSU 15,22% risultati in Giovagnoli, La Repubblica degli Italiani 1946-2016, Editori Laterza, Bari, 2016. 2 Quando a giugno del 1968 uscì a Praga il ‘Manifesto delle 2000 parole’, un documento di intellettuali che irritò molto l’Unione Sovietica, il PCI espresse forte preoccupazione e, temendo una invasione simile a quella di Budapest del 1956, mise in modo i suoi canali diplomatici per chiedere ai sovietici di non ripetere l’errore, sottolineando le differenze con la situazione dell’Ungheria di 12 anni prima, cioè il fatto che alla guida del “nuovo corso” vi fosse un partito comunista che godeva del sostegno popolare e che non voleva uscire dal “campo” socialista. Nonostante le rassicurazioni ricevute, nella notte tra il 20 e il 21 agosto i carri armati del Patto di Varsavia (con l’eccezione della Romania) invasero la Cecoslovacchia. Cfr G. Liguori, Berlinguer Rivoluzionario, il pensiero politico di un comunista democratico, Carocci editore, 2014. 3 In realtà la scissione da parte di una piccola minoranza si ebbe sul versante di sinistra del partito: l’ala più radicale della sinistra seguace di Pietro Ingrao (sconfitta nel Congresso del Pci del 1966 ma ancora forte e in sintonia con nuovo “movimento del ’68”, studentesco e largamente antisovietico) fece una propria rivista, il manifesto, e a un anno dall’invasione pubblicò un editoriale intitolato ‘Praga è sola’, in cui lamentava l’atteggiamento troppo morbido del PCI verso i sovietici. Cfr G. Liguori, Berlinguer Rivoluzionario, il pensiero politico di un comunista democratico, Carocci editore, 2014. 4 i Repubblicani nel 1968 conquistarono l’1,97% alla Camera ed il 2,17% al Senato in confronto alla elezioni precedenti in cui alla Camera ebbero l’1,37% e al Senato lo 0,68% dei voti. Cfr A. Giovagnoli, La Repubblica degli Italiani 1946-2016, Editori Laterza, Bari, 2016, pp. 70-80 e www.cattaneo.org/archivi/archivio-dati-elettorali/elezioni-politiche/. 5 Ivi pp. 75-90. 6 Ivi pp. 75-90. 7 F. De Luca, Rumor e i ministri giurano davanti al Capo dello Stato, in “La Stampa”, 14 dicembre 1968, p. 1. 8 F. De Luca, Rumor e i ministri giurano davanti al Capo dello Stato, in “La Stampa”, 14 dicembre 1968, p. 1. 9 A. Giovagnoli, La Repubblica degli Italiani 1946-2016, Editori Laterza, Bari, 2016, pp. 70-80. 10 Ivi pp. 70-80 11 Ivi pp. 70-80 12 L’Università necessitava di una ventata rinnovatrice, poiché l’insegnamento era in mano ai «baroni», i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce, era sottovalutata o ignorata l’esigenza di laboratori e seminari che preparassero gli studenti all’attività professionale, e molti professori erano «ferroviari» (comparivano solo per le lezioni e con i ragazzi non avevano nessun rapporto umano). Cfr P. Craveri, L’arte del non governo, Marsilio Nodi, 2016. 13 L’espressione fu coniata dal settimanale inglese The Observer, nel dicembre 1969, all’indomani della strage di piazza Fontana, generalmente considerata l’avvio della strategia della tensione. 14 A. Giovagnoli, La Repubblica degli Italiani 1946-2016, Editori Laterza, Bari, 2016, pp. 70-80. 15 G.M. Ceci, Moro e il PCI, la strategia dell’attenzione e il dibattito politico italiano (1967-1969), Carocci Editore, 2013, pp. 363-384. 16 Ivi pp. 363-384 17 Nella scienza politica contemporanea, termine introdotto da A. Lijphart (1968) per indicare un modello di democrazia rappresentativa, nel quale la stabilità politica è il prodotto di un sistema di accomodamenti e compromessi fra le élites di partito, che operano in modo da controbilanciare i conflitti e le fratture esistenti nella società. Cfr Enciclopedia Treccani 18 fattore K – dal russo Kommunizm (comunismo) – utilizzato per la prima volta in un editoriale di Ronchey nel Corriere della Sera del 30 marzo 1979. 19 Intervento di Moro al CN della DC 31 gennaio 1975 cfr P. Craveri, L’arte del non governo, Marsilio Nodi, 2016. **Isabella Alfano** , _1968-1994: dalla prima repubblica alla “discesa in campo” di Berlusconi_ , Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno Accademico 2017-2018 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
November 5, 2025 at 11:46 AM
La solidità di un appartenere che rimane accanto ovunque ci si sposti adrianomaini.altervista.org/la…
La solidità di un appartenere che rimane accanto ovunque ci si sposti
Rita Della Giovanna, Canale con nebbia – 50x30cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra […] Anche in _Canale con nebbia_ , in cui Rita Della Giovanna racconta le atmosfere fluviali autunnali della sua terra di origine, spesso avvolta dalla nebbia da cui emerge la bellezza malinconica e struggente di luoghi familiari, rassicuranti proprio per quell’essere parte della quotidianità dell’artista che riesce a riprodurne perfettamente le tonalità terrose e soffuse, come se in qualche modo volesse sottolineare l’importanza delle radici, la solidità di un appartenere che rimane accanto ovunque ci si sposti. Il debole sole si specchia sul canale cercando di trasmettere luce divenendo così in qualche modo metafora di un’interiorità sensibile che non si arrende anche davanti ai tentativi di spegnerne la luminosità. Rita Della Giovanna, Ragazze nepalesi che imitano il volo degli uccelli – olio su tavola, 90x60cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra Rita Della Giovanna è però anche un’attenta osservatrice dell’essere umano, di tutto ciò che appartiene all’individualità ma anche alla collettività, e questo emerge in particolar modo nel momento in cui si trova in viaggio, dove la curiosità della scoperta la induce a catturare nella sua mente e nella sua emotività, immagini su cui non può fare a meno di soffermarsi, come nella tela _Ragazze nepalesi che imitano il volo degli uccelli_ in cui immortala una sorta di danza rituale che attrae la sua attenzione per la leggerezza mostrata dalle protagoniste dell’opera. Quasi muovendosi su un palcoscenico naturale le giovani donne offrono al viaggiatore quell’assaggio della propria cultura che Rita Della Giovanna coglie e racconta proprio in virtù del fascino che il ballo esercita su di lei. Ecco perché dedica una serie intere di tele al balletto classico, esattamente come il suo predecessore Degas, per la leggerezza che le danzatrici mostrano nelle movenze, avvolte da nuvole di tulle che accentuano la percezione di delicatezza ma anche di forza e determinazione nel portare a termine il duro allenamento quotidiano e la rappresentazione di uno spettacolo. Rita Della Giovanna, Tenerezza – olio su tavola, 60x40cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra La rarefazione delle immagini qui mostra il lato più impressionista dell’autrice che tralascia il dettaglio per infondere nello sguardo dell’osservatore la grazia con cui le ballerine misurano ogni gesto, ogni posa, ogni passo eseguito frutto di un duro lavoro che però non emerge, inducendo lo sguardo a considerare solo l’effetto finale di soavità. […] Rita Della Giovanna, Onde di tulle – olio su tavola, 60x40cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra **Marta Lock** , _L’Impressionismo Romantico di Rita Della Giovanna, quando l’impalpabilità delle sensazioni si fonde con la leggerezza interpretativa_ , L’Opinionista, 25 ottobre 2024 Share:
adrianomaini.altervista.org
November 3, 2025 at 9:06 AM
I tedeschi avanzarono per le direttrici Pigna-Langan grupposbarchi.wordpress.com/20…
grupposbarchi.wordpress.com
October 30, 2025 at 11:08 AM
Passammo i Pirenei nel giugno del ’41 collasgarba2.altervista.org/pa…
Passammo i Pirenei nel giugno del ’41
Così come gli altri oppositori antifascisti in esilio, anche Lussu era sottoposto a un forte controllo da parte dei servizi di polizia politica fascista. Vari documenti custoditi presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma forniscono testimonianza diretta di tale vigilanza, in particolare per ciò che concerne i suoi spostamenti. Uno di questi, recante la copia dell’appunto del 18 settembre del 1940 della Divisione polizia politica, diretto alla Direzione generale pubblica sicurezza (Divisione affari generali e riservati), indica effettivamente la presenza di Lussu nella città di Marsiglia: “A quanto ci risulta quelli di “g. e l” avevano fatto il proposito di salpare da Marsiglia, perché alla spicciolata lasciavano il tolosano. Già eravi giunto Emilio Lussu con la contessina Salvadori; poi a distanza di 15 giorni, sono stati raggiunti da Alberto Cianca ed altri” <264. Cianca, insieme a Garosci, Valiani, i fratelli Pierleoni, Chiaramonti e altri antifascisti, dopo svariati tentativi non andati a buon fine, riuscirono ad arrivare a Casablanca su dei piroscafi e con documenti falsi <265. Dalla città marocchina avrebbero dovuto proseguire per gli Stati Uniti ma rimasero bloccati. Questo motivo spinse Lussu, nel giugno del 1941, a partire per Lisbona, luogo in cui, grazie alla collaborazione degli inglesi, avrebbe trovato il modo di aiutare per l’espatrio gli amici rimasti bloccati. Portò con sé anche Joyce, la cui presenza riteneva necessaria in quanto l’anno di vita clandestina gli «aveva dimostrato che, dove non passa un uomo, una donna passa» <266. Nonostante un rigido controllo di polizia, un uomo «accompagnato a una donna, vive e si sposta come in tempi normali, osservando, naturalmente, un codice severo di prudenza» <267. Per arrivare in Portogallo, malgrado le difficoltà dovute alla ferrea sorveglianza delle frontiere, i Lussu decisero di passare per i Pirenei, e di attraversare la Spagna, transitando per Barcellona e successivamente per Madrid e Badajoz. Fondamentali per la riuscita dell’impresa due documenti falsi polacchi intestati a Jean Laskovski e Anna Laskowska e l’aiuto di una guida, l’aragonese Francisco, ex ufficiale dell’esercito repubblicano. Lussu rammenta quel complesso viaggio all’inizio del terzo capitolo di “Diplomazia clandestina”: “Passammo i Pirenei nel giugno del ’41. In quel periodo le frontiere erano ben sorvegliate dai due versanti, e non era, come nel ’40, facile passare. Molti avevano fallito. […] Ma, dati i miei rapporti con l’emigrazione spagnola, ero riuscito a trovare come guida un capitano repubblicano spagnolo che, certamente, era stato capo di contrabbandieri: egli era il padrone dei Pirenei. Facemmo l’ascesa marciando tutta la notte, evitando i posti di guardia e le pattuglie, non solo per l’abilità della guida ma anche per l’aiuto di una pioggia leggera che ci protesse lungo tutto il cammino. Raggiungemmo il territorio spagnolo, […] all’alba. E attendemmo la tarda sera per iniziare la discesa, durante tutta la notte, fino alla prima stazione ferroviaria di confine. Là, i nostri documenti polacchi resistettero al controllo, e proseguimmo in treno per Barcellona, con un’altra guida che aveva sostituito il capitano repubblicano. Questi era un uomo d’onore e un valoroso, che si sarebbe fatto uccidere per mantenere l’impegno di farci passare; la nuova guida era un mercante di borsa nera e, molto probabilmente, teneva il piede nelle due staffe. Non dubito affatto che, se avesse saputo chi noi eravamo, e se non avesse dovuto essere ricompensato solo alla frontiera portoghese, ci avrebbe consegnato alla polizia franchista. Tuttavia, sia pure attraverso qualche rischio, […] riuscimmo ad arrivare a Madrid e Badajoz. Di là passammo la frontiera portoghese egualmente di notte fino a Elvas” <268. I rischi di cui parla Lussu erano sicuramente tangibili e ne è prova concreta un documento, datato 16 luglio 1941, del Gobernador Civil de la Provincia de Gerona, attestante un ordine di arresto nei confronti di Emilio e Joyce Lussu: “In ottemperanza agli ordini di Sua Eccellenza il Direttore Generale della Sicurezza, la prego di ordinare che nel caso in cui i cittadini italiani EMILIO LUSSU, 51 anni, nato a Cagliari (Italia), e JOYCE SALVADORI, nata a Firenze (Italia), tentino di entrare in Spagna, si proceda al loro arresto ed entrata in carcere, con notifica urgente a me” <269. I Lussu, in effetti, non passarono inosservati durante il loro transito per la Spagna. Giunti a Barcellona e costretti a fermarsi in un albergo prima di trovare il modo di arrivare a Madrid, furono chiamati per recarsi in questura a denunciare le proprie generalità. A presentarsi, cavandosela egregiamente, è la sola Joyce, la quale racconta l’episodio in “Fronti e frontiere”, in un capitolo che è stato anche pubblicato, col titolo “L’italiano in Spagna”, su «Aretusa» rivista bimestrale, poi mensile, diretta da Francesco Flora, Fausto Nicolini, Carlo Muscetta <270. La presenza dei Lussu a Lisbona è testimoniata da due documenti della Divisione polizia politica, indirizzati alla Divisione affari generali e riservati: il primo è del 25 luglio – «Si comunica che da notizie fiduciarie si apprende che il noto fuoruscito Emilio Lussu si trova attualmente a Lisbona, mentre a Marsiglia avrebbe lasciato persona di fiducia con l’incarico di tenerlo al corrente di quanto possa interessarlo» <271 – il secondo del 28 agosto – «Per opportuna conoscenza si comunica che il noto Lussu Emilio si trova attualmente in Portogallo, dove si tratterrebbe soltanto pochi giorni» <272. In Portogallo, Paese neutrale, in cui vigeva il fascismo di Salazar, si finsero francesi. Joyce poté iscriversi e frequentare regolarmente l’Università mentre Emilio dedicò il suo tempo a organizzare il viaggio in America dei compagni fermi in Africa, riuscendo nell’intento, col sostegno della War Office britannica, circa cinque mesi dopo. Questo avvenimento può essere considerato a tutti gli effetti come l’inizio della diplomazia clandestina. Difatti, a partire da quel momento egli concentrò la sua attenzione sui problemi politici che formavano il centro delle sue primarie preoccupazioni, rivolte specialmente alla preparazione di un piano per uno sbarco di antifascisti in Sardegna, come punto di inizio dell’insurrezione italiana contro il regime fascista. Il 24 agosto del 1941 la Divisione polizia politica riporta una nota dell’Ispettore Generale di pubblica sicurezza, nella quale si riferisce «che sono ricominciate a circolare voci generiche di uno sbarco di Lussu in Sardegna» <273. I mesi trascorsi a Lisbona permisero a Lussu di approfondire e affrontare concretamente, mediante contatti diretti con gli inglesi, il citato piano sulla Sardegna, a cui egli pensava – come afferma in “Diplomazia clandestina” – «fin dal giugno del ’40» <274 e per il quale aveva anche stretto collegamenti con la Corsica. Un altro documento della Divisione polizia politica, sempre diretto alla Direzione affari generali e riservati, datato 17 giugno 1940, conferma che l’interesse reale rispetto a un piano insurrezionale da far partire in Sardegna era nella mente di Lussu, non come semplice riflessione, ma stavolta nella sua attuazione concreta, da almeno un anno <275: “Si comunica la seguente segnalazione con la quale viene confermato, da altra fonte attendibile provenienza svizzera – il pazzesco disegno caldeggiato da Lussu di una spedizione in Sardegna della sua “Legione antifascista”. […] Tutto è disposto per la formazione di una legione speciale italiana destinata ad una azione nella Sardegna attraverso la Corsica e sotto il comando e la direzione del Lussu stesso” <276. La messa in atto di un simile progetto necessitava di parecchi mezzi. Per questo motivo, Lussu – ricorda Joyce – «aveva scritto ai suoi amici negli Stati Uniti, l’unico paese dove l’emigrazione italiana potesse raccogliere facilmente dei fondi, ed esponeva loro i suoi progetti. Questa lettera era caduta in mano della censura inglese che trovandola d’interesse l’aveva fotografata e spedita a Londra. Pochi giorni dopo Lussu era invitato a recarsi a Londra, anche per un soggiorno brevissimo, per trattare sul posto il problema» <277. [NOTE] 264 ACS, Roma, CPC, b. 2888, fasc. Emilio Lussu. 265 Lussu organizzò un altro percorso per Franco Venturi. Sarebbe dovuto arrivare a Lisbona attraversando la Spagna. Venne però arrestato in territorio spagnolo e consegnato a Roma. 266 Emilio Lussu, Diplomazia clandestina, cit., pp. 21-22. 267 Ivi, p. 22. 268 Ivi, p. 23. 269 Expedient de frontera de: Joyce Salvadori; Lussu Emilio, documento custodito da Arxius en línia, portale dove è possibile consultare i fondi, i documenti e gli oggetti digitali custoditi dagli archivi di tutta la Catalogna. La traduzione dallo spagnolo all’italiano è nostra. Qui di seguito l’originale in spagnolo della parte citata: «En virtud de lo dispuesto por el Excmo. Sr. Director General de Seguridad, sirvase orderna que caso intenten entrar en España los súbditos italianos EMILIO LUSSU, de 51 años de edad, nacido en Cagliari (Italia), y JOYCE SALVADORI, nacido en Florencia (Italia), se proceda a su detención e ingreso en la cárcel, dándome cuenta urgentemente». Il documento è posto in appendice. Si veda sotto, pp. 432-433. 270 Cfr. Joyce Lussu «Aretusa» L’italiano in Spagna, anno II, n. 13, settembre 1945, pp. 59-74. 271 ACS, Roma, CPC, b. 2888, fasc. Emilio Lussu. 272 ACS, Roma, CPC, b. 2888, fasc. Emilio Lussu. 273 ACS, Roma, CPC, b. 2888, fasc. Emilio Lussu. 274 Emilio Lussu, Diplomazia clandestina, cit., p.21. 275 Dei documenti di stampo fascista, custoditi presso l’ACS, testimoniano che Lussu rifletteva, fin dai primi anni Trenta, sulla creazione di una organizzazione antifascista in Sardegna. 276 ACS, Roma, CPC, b. 2888, fasc. Emilio Lussu. 277 Joyce Lussu, Fronti e frontiere, cit., p. 80. **Daniele Mannu** , _Emilio Lussu e il mondo spagnolo_ , Tesi di dottorato, Università per Stranieri di Perugia in co-tutela con Università di Siviglia, 2024 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
October 27, 2025 at 1:03 PM
Lo sguardo di Elena Salibra si volge spesso al passato in rapide fughe adrianomaini.altervista.org/lo…
Lo sguardo di Elena Salibra si volge spesso al passato in rapide fughe
_Vers.es_ (edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2004) è il titolo della raccolta che segna l’esordio poetico di Elena Salibra. Si tratta di una prima pubblicazione molto matura: all’epoca, la poetessa ha già compiuto 55 anni, e da tempo occupa la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università degli Studi di Pisa. Questa particolarità biografica, inedita nella maggior parte dei poeti, può ben spiegare quella tematica che emerge costantemente dalle pagine poetiche di Elena Salibra, comune all’intera raccolta (sicuramente alla prima sezione, _Stanze e madrigali_ , la più ampia e significativa): il tempo. Questo tema, preoccupazione poetica disseminata per l’opera tutta di Elena Salibra, è qui fin da subito presentato al lettore, quasi a sottolinearne l’importanza: la prima lirica di _Vers.es_ (_Capodanno 2000_) si apre proprio sulla parola-chiave «…il tempo», e nel significativo titolo (un importante spartiacque temporale: la fine e l’inizio di un nuovo anno, di un nuovo secolo e di un nuovo millennio) ci avverte anche sulla dialettica presente-passato entro la quale si svilupperà la tematica principale. Memoria e ricordo sono costanti compagni del lettore, all’interno di questa raccolta poetica. Lo sguardo di Elena Salibra si volge spesso al passato in rapide fughe, quasi fosse incapace di vivere appieno nel presente: il ritirarsi nel tempo che fu può assumere sia dimensione privata (_Bagnante fuori orario_) che pubblica (_La casa rosa_), fino a toccare addirittura le lontanissime soglie del Mito e della Storia (_Sicilia d’autore_). Qualunque sia il caso, il sentimento di malinconia con cui ci si approccia al passato è posto in netto contrasto ad un presente per il quale non si prova alcuna empatia (a tratti grigio, ordinario; a tratti straniante; dimensione da cui fuggire, in ogni caso). Ancora più netta è l’opposizione al futuro, tanto netta da farsi quasi rifiuto. Non si vive mai nel futuro, nei versi di questa prima raccolta: il tempo a venire è rapidamente accennato e subito chiuso in un angolo, o bruscamente messo a tacere da chiuse repentine di verso o di lirica («un’altra meta» è la concessione massima allo slancio nel futuro, che troviamo in _2-2-2000_). E i rari accenni a questa dimensione non mancano di caricarsi di un’atmosfera tutt’altro che rassicurante: si passa dall’«ansia» di un «tempo/impaziente» nella lirica 19 febbraio, ai «brividi» di «un esito di sogni infiniti» nel componimento _La bicicletta_. All’opposizione tra un presente anonimo e un passato costantemente rievocato, fa eco il contrasto evidente tra la terra natale di Elena Salibra e lo spazio nel quale la poetessa si muove nel quotidiano. All’anonimo e grigio “nord” (spesso e volentieri taciuto del tutto, assente dalla composizione lirica), si contrappone una _Sicilia d’autore_ evocata con precisione e dovizia di dettagli: elementi botanici, quali «il carrubo» o «l’auracaria», si alternano ai numerosi toponimi e ai luoghi più cari dell’infanzia (sui quali svetta _La casa rosa_ , più volte evocata e alla quale è dedicata un’intera lirica). L’esempio più lampante rimane _Odori siciliani_ , vero e proprio inno ai colori e sapori della terra natia («peperoncino ‘stratto maggiorana/mostarda timo finocchio mentuccia/noce moscata cannella capperi olive»). Per tutti questi motivi, mi sembra estremamente centrata e interessante l’analisi effettuata da Marco Santagata nella sua recensione alla raccolta apparsa su _Forum Italicum_ <3: Santagata ci propone, infatti, un elaborato approccio critico al titolo di questo esordio poetico di Elena Salibra, che racchiude e supporta tutti gli elementi che abbiamo sinora evidenziato. “Il titolo della raccolta poetica di Elena Salibra, _Vers.es_ […] è cosi ricco di suggestioni da rappresentare una buona guida per chi si accinga a ricercare alcune chiavi di lettura: intanto, come va letto? Due possibili letture sono di immediata evidenza: Verses oppure Vers punto es. […] Chiunque senta pronunciare Verses non può non associare a quella parola il significato di versi. Del resto, l’inglese verse significa per l’appunto verso […] Ma questo è solo un primo livello. Anche la seconda lettura, Vers punto es, contiene una allusione di facile decifrabilità: non può sfuggire, infatti, che quella dizione rimanda, forse parodiandolo, al linguaggio della comunicazione telematica. È una sorta di indirizzo di sito web, nel quale es sta a indicare il dominio: versi nel dominio di es […] In francese, però, vers può essere anche preposizione che indica direzione; e allora il suggerimento sarebbe di tipo dinamico: versi o poesie che vanno verso es. Ma chi è o cos’è questo es, questo segno di dominio telematico? La copertina del libro non lascia dubbi: sono le iniziali dell’autrice. Come dire che il libro di Elena Salibra registra una storia, presenta un cammino che porta a Elena Salibra. Letto cosi il titolo è una forte, quasi spudorata esibizione autobiografica”. <4 Questa interpretazione sembra davvero molto calzante: _Vers.es_ – giocando sul termine inglese che significa “verso” – ci indicherebbe tra le righe un moto direzionale verso la stessa Elena Salibra, verso la sua biografia e verso la sua poesia (che è poi interamente basata sulla prima). Non sembrano esserci grossi impedimenti ad accettare questa chiave di lettura, anche alla luce di quanto già detto in precedenza: la costante attenzione al tempo ed allo spazio che furono, contrapposta al grigio anonimato del presente quotidiano, fanno effettivamente di quest’opera un’efficace introduzione alla persona Elena Salibra che sta dietro lo scritto poetico – significandolo costantemente con il proprio vissuto. [NOTE] 3 Vol. 40, 1, Primavera 2006 4 Marco Santagata, Vers.es o La dispersione dell’es, in Forum Italicum Vol.40, 1, Primavera 2006, pp. 176,179 **Guido Giovannetti** , _Tempo e memoria nella poesia di Elena Salibra_ , Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, 2016 Share:
adrianomaini.altervista.org
October 27, 2025 at 9:04 AM
La Brigata ben presto fu raggiunta da uno dei primi e più feroci rastrellamenti tedeschi collasgarba2.altervista.org/la…
La Brigata ben presto fu raggiunta da uno dei primi e più feroci rastrellamenti tedeschi
La Burlando, nata a Genova nel 1913, insieme a Paolo Emilio Taviani e a Marcella Alloisio [Rossella] andarono, poi, a costituire l’efficientissima segreteria tecnica del CLN ligure. <118 Questo complicatissimo meccanismo era collegato alle Missioni alleate, con le quali si era in costante contatto radio attraverso l’Ufficio aviolanci, il quale aveva anche il compito di istruire il personale di banda, di tenere registrati tutti i movimenti dei campi di lancio nonché degli stessi lanci, e registrava in quali zone venivano effettuati. Essendo queste missioni molto rischiose, si decise di limitare al minimo i contatti fra queste e il Comando. La Liguria fu così divisa operativamente in quattro zone: Imperia, Savona, Genova e La Spezia. Al Comando non riuscì mai l’effettiva unificazione delle forze partigiane, rispondendo queste ai partiti che le organizzavano, e non ci fu mai dunque una collaborazione unitaria efficace nella lotta al nazi-fascismo. Vi si riuscì con le formazioni di montagna – le quali avendo abbandonato il colore politico – fu possibile amalgamare in un esercito di liberazione. Gli stessi quadri del Comando dovettero costantemente essere sostituiti per via degli arresti che si susseguirono. Alla fine di agosto del 1944 la Sezione Operativa divenne un vero e proprio stato maggiore delle forze partigiane della Liguria. Dal dicembre dello stesso anno la direzione, dopo l’arresto di Trotti (PLI), passò al suo principale collaboratore, Ugo Attilio Palmisano <119. Alla fine nella seconda metà del dicembre del 1944 a Genova la polizia nazifascista riuscì a chiudere tutte le maglie della catena che da vario tempo cercava di stringere attorno al Comando regionale, e di lì a poco partirono numerosi arresti che sancirono la fine dell’intero Comando e la nascita di un altro Comando nel gennaio del 1945, questa volta con elementi del tutto nuovi, dove come responsabile del Servizio Informazioni e della Direzione della Sanità si insediava Ferdinando Croce. Venne costituito un Comando di Piazza che iniziò la sua attività nel marzo del 1945, dividendo la città in quattro grandi settori. A ciascun comando del settore facevano capo tutte le formazioni e Brigate cittadine. Grazie a questi Comandi che organizzarono l’insurrezione cittadina, le forze tedesche e fasciste della Liguria furono sconfitte molto prima che la V Armata Alleata giungesse a Genova. **Partigiani liberali: in montagna e in città** Esaminando l’attività del Partito liberale in Liguria nel periodo cospirativo e clandestino emerge che le formazioni partigiane furono sicuramente quelle che conobbero più varie evoluzioni e modifiche. Se ne annoverano quattro, tra le più importanti. La prima, costituita il 9 settembre 1943, fu la Banda di Voltaggio, attiva nella zona dei monti Tobio e Porale. La formazione era composta da nove ex prigionieri russi evasi, da un ex partigiano jugoslavo e da 5 italiani, al comando del Tenente Giuseppe Merlo. In breve tempo raggiunse quota 24 uomini e venne assorbita dalla I Brigata Odino operante nella stessa zona, nata nel febbraio del 1944, proprio per raccogliere attorno al nucleo anziano della ex Banda del Voltaggio la grande massa di giovani renitenti alla leva della RSI. Il Comandante era Giancarlo Odino [Italo]. Quest’ultimo era nato a Genova nel 1894. Aveva già preso parte alla I guerra mondiale come sergente dei granatieri, nel 1941 divenne capitano. Nel 1943 fu richiamato alle armi e assegnato al controllo del campo di lavoro di Gavi. Dopo l’8 settembre si diede alla macchia e stabilì i primi contatti con il CLN di Genova. Nel gennaio del 1944 organizzò dunque la prima banda. Le sue file cominciarono subito ad ingrossarsi, fino a raggiungere, nell’aprile del 1944, i 220 uomini. Era composta da tre battaglioni guidati uno dal tenente Merlo, uno dal tenente Isidoro Pestarino e l’ultimo da Renato Repetto. La Brigata ben presto fu raggiunta da uno dei primi e più feroci rastrellamenti tedeschi. Dei 220 uomini della Odino, 130 uomini tra cui il capitano Odino e il tenente Pestarino morirono in combattimento o vennero fucilati; 40 furono fatti prigionieri e spediti in Germania. Soltanto una cinquantina, sotto la guida del tenente Merlo, riuscirono ad uscire dalla zona di blocco, e, dopo due durissimi mesi, ad entrare a far parte della II Brigata Odino ricostituitasi nel giugno del 1944. Quest’ultima rispondeva ai comandi del Tenente Astor Repetto, ex collaboratore della organizzazione Otto, e riuniva una trentina di nuovi elementi, dei quali una parte era del luogo e un’altra parte della zona del cuneese e con una cinquantina di reduci della I Brigata Odino. Anche la II Brigata Odino andò ad incrementare rapidamente le sue file, ma durante un’azione il suo Comandante Giorgio [Astor Repetto] venne ferito ad un braccio rimanendo mutilato <120. Si procedette alla sua sostituzione con il Comandante Francesco Buttafava, ma nel dicembre del 1944 la Brigata fu nuovamente rastrellata, riportando tre morti, un mutilato e quattro feriti. Dopo essersi ricomposta, essa si divise in due: la II Brigata Odino (Buttafava) e la Brigata Martiri della Benedicta <121 con a capo il tenente Merlo, di circa 250 uomini. Quest’ultima, nata nel marzo del 1945, era composta da elementi locali che, in vista dell’insurrezione di metà aprile, occuparono Bosio, Parodi, Gavi e la Crenna. In queste due ultime località, essa riuscì addirittura a smantellare i presidi tedeschi e a continuare la sua opera tra i monti rastrellando i membri residuali delle SS. Accanto alle formazioni autonome di montagna, troviamo operanti nel centro della città di Genova le cosiddette formazioni di città, o Squadre di Azione Patriottica. Operante nella zona di Quinto, Nervi e S. Ilario, nell’agosto del 1944 prese vita la Brigata Crosa, con al Comando il tenente Gostisa. La Brigata risultava composta da 120 uomini armati, che in aprile divennero 220 e che durante l’insurrezione liberarono la zona sotto il loro controllo, combattendo nel loro presidio, situato presso l’albergo Eden, catturando 500 tedeschi e portando alla resa di Monte Moro. Altra Brigata non meno importante della Crosa era quella di San Giorgio, operante nella zona del centro della città e a Sampierdarena, creatasi nel marzo del 1945 in collaborazione con il Gruppo unitario di difesa nazionale, già espressione del Partito liberale nella costituzione della II Brigata Giancarlo Odino. Si trattava di 100 uomini al comando del già noto generale Buttafava e del tenente Silvio Viano. La San Giorgio, insieme alla Brigata Odino, scesa appositamente dalle montagne in città, prese parte attiva alla liberazione di Genova. Visti i numerosi successi delle due brigate, il loro intendente Carlo Pestarino, sarebbe stato poi nominato, per le sue eccellenti doti di comando, comandante di tutte le SAP, espressione anche di diversi partiti. Durante questi lunghi mesi un grande numero di partigiani di montagna e di città del Partito liberale perse la vita, partecipando attivamente alla lotta partigiana in formazioni di altri partiti. È il caso dei caduti della Divisione Coduri, che ebbe origini da una banda di 25 uomini guidati dai fratelli Savoretti; un numero consistente di liberali si registrava poi nella Brigata della Divisione Pinan-Chichero, della quale il primo nucleo da cui la formazione ebbe origine si radunò dal settembre 1943 nella zona di Favale, nell’entroterra chiavarese: si trattava di una decina di uomini in tutto. Il gruppo iniziale, ispirato allo spirito di fraternità e a quello che diverrà noto come codice Cichero, un codice morale, etico e di comportamento, era formato da persone di diversa estrazione, cultura e pensiero (cattolici, comunisti, liberali di sinistra): Aldo Gastaldi [Bisagno], Giovanni Serbandini [Bini], Giovanni Battista Canepa [Marzo], Severino Bianchini [Dente], Umberto Lazagna [Canevari], Franco Antolini [Furlini], Giovanni Bianchi [Cilletto], Emilio Roncagliolo [Lesta], Cesare Passano [Formaggetta], Renato Dersaglio, Giovanni Vignale, Augusto Sanguineti e tre siciliani sbandati, conosciuti come Severino, Michele e Razza. Bisagno e Bini e il gruppo iniziale stabilirono le severe regole di comportamento che caratterizzarono sempre le formazioni partigiane da loro dirette, fino al 25 aprile 1945. [NOTE] 118 Si veda C. BRIZZOLARI, Un archivio della Resistenza in Liguria, Di Stefano, Genova 1974, p.170; R. BALESTRIERI, un centro cospirativo nella facoltà di Ingegneria, in «Genova», XXXII, n.4, pp.45-49. 119 Cfr. Appendice, 27 settembre 1944, 15 ottobre 1944. 120 La Minoletti riporta in modo molto dettagliato quelle giornate, Cfr. Appendice, ottobre 1944, 17 ottobre 1944, 25 ottobre 1944, 1° novembre 1944. 121 La zona dove furono trucidati i membri della banda Odino **Rosa Pace** , _Noi, le altre. Le donne liberali nella Resistenza_ , Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Anno Accademico 2018-2019 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
October 23, 2025 at 11:26 AM
L’importanza di “Autoritratto” risiede nella sua capacità di ridefinire il rapporto tra critico e artista adrianomaini.altervista.org/li…
L’importanza di “Autoritratto” risiede nella sua capacità di ridefinire il rapporto tra critico e artista
“Il senso di ciò che dicono gli artisti in _Autoritratto_ proviene dal riconoscimento non solo della loro autenticità, ma anche della mia che dava alla loro occasione di manifestarsi. Dunque non ero una spettatrice”. <269 Pubblicato nel 1969, _Autoritratto_ di Carla Lonzi rappresenta una svolta decisiva nella critica d’arte italiana. Il libro raccoglie trascrizioni di conversazioni registrate tra Lonzi e quattordici artisti contemporanei, tra cui Carla Accardi, l’unica donna presente nel volume. Queste interviste, condotte tra il 1965 e il 1969, offrono una visione diretta e, in un certo senso, intima, del processo creativo degli artisti, mettendo in luce le loro riflessioni personali e professionali. <270 Lonzi adotta qui un approccio innovativo, abbandonando la critica d’arte tradizionale a favore di un dialogo spontaneo e, soprattutto, orizzontale con gli artisti. Utilizzando questo metodo, ella mira a superare la gerarchia tra il critico e gli artisti, permettendo a questi ultimi di diventare i veri soggetti della narrazione. Attraverso questa forma di “autoritratto collettivo”, Lonzi mette in discussione il ruolo del critico come autorità e mediatore, promuovendo una relazione più autentica e paritaria. <271 La struttura del libro riflette questa filosofia: le conversazioni non seguono un ordine cronologico, ma sono montate secondo assonanze tematiche e affinità, creando un flusso dinamico e vivace, quasi travolgente, di idee e riflessioni. Questo montaggio non lineare permette di cogliere le connessioni profonde tra le esperienze degli artisti e le loro visioni dell’arte. <272 _Autoritratto_ è considerato un’opera fondamentale non solo per la critica d’arte, ma anche per il femminismo italiano: rappresenta il culmine – ma anche l’addio – del percorso di Lonzi come critica d’arte, e prelude al suo impegno nel movimento femminista, dove continuerà a esplorare temi di autenticità, soggettività e relazione. <273 L’importanza di _Autoritratto_ risiede nella sua capacità di ridefinire il rapporto tra critico e artista, offrendo una prospettiva innovativa che privilegia l’esperienza diretta e la voce degli artisti stessi. Questo approccio ha influenzato profondamente la pratica critica successiva, aprendo la strada a nuove modalità di interazione e comprensione dell’arte contemporanea. <274 Ribaltando il tradizionale rapporto tra critico e artista e proponendo una forma di critica basata sul dialogo autentico e l’eguaglianza, Lonzi dimostra come l’esperienza personale e il vissuto creativo possano costituire il vero punto di partenza per una comprensione più profonda dell’arte, superando la visione gerarchica in cui il critico detiene un’autorità inamovibile. Questa metodologia ha inaugurato un nuovo approccio critico in cui l’interpretazione non è più un monologo esterno, ma un processo di co-creazione e confronto tra esperienze diverse. <275 In questo modo, l’opera ha anticipato e influenzato la critica contemporanea, orientandola verso pratiche partecipative e interdisciplinari che valorizzano la pluralità di voci e prospettive. La trasformazione è evidente nel fatto che, anziché imporre un giudizio dall’alto, la critica si trasforma in un laboratorio sperimentale in cui il significato dell’arte viene costantemente messo in discussione, esaminato e rielaborato. <276 Inoltre, questo approccio ha contribuito a democratizzare il discorso sull’arte, facendo della soggettività e dell’esperienza personale elementi centrali nella costruzione del significato artistico. _Autoritratto_ ha dunque segnato un passaggio decisivo, in cui la critica d’arte si trasforma da mera analisi a strumento di dialogo e interazione creativa, aprendo la strada a nuove modalità di interpretazione e valutazione dell’arte contemporanea. <277 _Autoritratto_ ha dunque preso forma attraverso la raccolta e il montaggio di conversazioni con diversi artisti che al principio non erano destinate a diventare materiale per un libro, ma che rispondevano al desiderio di intrattenersi con queste personalità in modo comunicativo e umanamente soddisfacente. Nella sua premessa al libro, Lonzi scrive di aver iniziato a sentire una crescente perplessità nei riguardi del ruolo critico, che percepiva come estraneo «all’atto artistico e come esercizio di un potere discriminante sugli artisti». <278 Negli anni, scrive Lonzi, ha visto maturare la convinzione che il critico, per essere realmente considerato tale, deve far parte della creazione artistica: chi è estraneo a questo processo può svolgere un ruolo critico socialmente rilevante solo se fa parte di una maggioranza anch’essa estranea all’arte. Si è creato così un falso modello nell’approccio all’opera d’arte: un modello culturale. Secondo Lonzi, la società ha commesso un errore rendendo istituzionale il momento critico, separandolo da quello creativo e conferendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti. Il libro “non intende proporre un feticismo dell’artista, ma richiamarlo in un altro rapporto con la società, negando il ruolo, e perciò il potere, del critico in quanto controllo repressivo sull’arte e gli artisti, e soprattutto in quanto ideologia dell’arte e degli artisti in corso nella nostra società”. <279 Cerca quindi di riconfigurare il rapporto tra gli artisti e la società, rifiutando il ruolo e il potere del critico come controllo repressivo sull’arte e gli artisti. I brani inclusi nello scritto sono il risultato di registrazioni di diverse conversazioni con vari artisti montati liberamente per creare un’atmosfera di convivio, anche se le conversazioni non si sono svolte contemporaneamente. Le registrazioni includono interviste con: Carla Accardi, Getulio Alviani, Enrico Castellani, Pietro Consagra, Luciano Fabro, Lucio Fontana, Jannis (nel libro nominato come Gianni) Kounellis, Mario Nigro, Giulio Paolini, Pino Pascali, Mimmo Rotella, Salvatore Scarpitta, Giulio Turcato e Cy Twombly, tutte avvenute tra il 1965 e il 1969, tranne quella con Twombly; in realtà le domande fatte a quest’ultimo erano scritte, ma Lonzi non ricevette mai una risposta a quell’intervista. La decisione di mettere lo stesso il suo intervento nel libro deriva dal fatto che «il suo silenzio mi aveva fatto, comunque, riflettere, […] perché portano un’eco, anche graziosa, di linguaggio accademico». <280 Il testo è quindi derivato da una serie di trascrizioni di conversazioni che Lonzi registra con artisti che lavoravano in Italia dopo la guerra, e il suo stile è fortemente segnato dallo stile colloquiale del discorso orale. Alcune frasi degli artisti infatti sembrano grammaticalmente scorrette, e i lettori ricevono la sensazione del ritmo della loro conversazione. Lonzi ha riorganizzato attentamente le trascrizioni utilizzando un metodo di editing arbitrario che elude le contingenze di tempo e luogo catturate dalle registrazioni originali, riunendo così gli artisti in un “simposio” che non ha mai avuto luogo realmente; si potrebbe infatti definire quasi un collage, non solo per gli effetti inaspettati dell’editing sulla leggibilità del testo, ma anche perché il flusso del libro è intervallato da 105 illustrazioni apparentemente non correlate a quanto leggiamo sulla pagina. Gli scambi iniziali sono accompagnati da una riproduzione di Giulio Paolini del diagramma di Kurt Kranz <281 che spiega lo sviluppo dell’arte moderna dal 1900 al 1970 <282. Nella sua analisi della storia orale nelle arti visive, Linda Sandino sottolinea l’importanza dell’intervista agli artisti nel superare il solipsismo dell’ermeneutica critica: le interviste forniscono circostanze e opportunità per la riflessione retrospettiva e un mezzo per colmare il divario tra il sé che era, il sé attuale che parla e il sé proiettato. <283 [NOTE] 269 Carla LONZI, Taci, anzi, parla. Diario di una femminista 1972-1977, La Tartaruga, Bologna, 2024, p. 64 270 Paola RUDAN, Carla Lonzi: autoritratto dell’imprevedibilità, articolo pubblicato su Il Manifesto il 30 marzo 2017 271 Valeria VENDITTI, Autoritratto di una ritrazione; Carla Lonzi. Un’arte della vita, articolo pubblicato su Doppiozero il 17 giugno 2017, consultabile su https://www.doppiozero.com/carla-lonzi-unarte-della-vita?utm_ (ultimo accesso 5/01/2025) 272 RUDAN, Carla Lonzi: autoritratto dell’imprevedibilità 273 Silvia CUCCHI, Perché (ri)leggere Carla Lonzi, articolo pubblicato su La Balena Bianca l’11 ottobre 2023, consultabile su https://www.labalenabianca.com/2023/10/11/perche-rileggere-carla-lonzi/ (ultimo accesso 5/01/2025) 274 Sputare sulla critica d’arte. Carla Lonzi e il soggetto imprevisto contro la dialettica, articolo pubblicato il 19 settembre 2016 su Quodlibet, consultabile su https://www.quodlibet.it/recensione/3893 (ultimo accesso 5/01/2025) 275 Paolo ZANARDI, Scrittura e sovversione, il metodo Lonzi, 2021 276 CUCCHI, Perché (ri)leggere Carla Lonzi 277 RUDAN, Carla Lonzi: autoritratto dell’imprevedibilità 278 Carla LONZI, Autoritratto, Abscondita, Milano, 2017, p. 11 279 LONZI, Autoritratto, p. 12 280 LONZI, Autoritratto, p. 13 81 Vd. Appendice iconografica 5 282 Francesco VENTRELLA, Giovanna ZAPPERI, Feminism and Art in Postwar Italy. The legacy of Carla Lonzi, Bloomsbury Visual Arts, Londra, 2021, p. 46 283 ibidem **Roberta Ciccarese** , _Autoritratto (1969). Il percorso di Carla Lonzi tra arte e femminismo_ , Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari – Venezia, Anno Accademico 2023-2024 Share:
adrianomaini.altervista.org
October 19, 2025 at 3:17 PM
L’Ufficio Affari Riservati viene sciolto dal ministro Taviani nel 1974 collasgarba2.altervista.org/lu…
L’Ufficio Affari Riservati viene sciolto dal ministro Taviani nel 1974
Con l’8 settembre e la nascita della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) la Pol Pol, Divisione di Polizia Politica del Ministero dell’Interno, mantiene la direzione di Guido Leto <1. Questi, vista la risalita inarrestabile degli Alleati dal sud Italia, nella primavera del ’44 prende contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e con l’Office of Strategic Services (Oss) di James Jesus Angleton donando loro i trentasei camion di fascicoli dell’Ovra nascosti precedentemente presso la Marzotto a Valdagno <2. Finita la guerra sia l’Ovra che la Pol Pol vengono sciolte e sostituite dalla Divisione Servizi Informativi e Speciali (Sis) – dalla quale per decreto istitutivo sono banditi tutti gli ex agenti dell’Ovra <3 -, rimpiazzata a sua volta dalla Divisione Affari Generali (Daagg) e dalla Divisione Affari Riservati (Daarr). La prima «competente per l’ordine pubblico e stranieri», e la seconda ha invece «compiti esclusivi di raccolta informativa». Caratteristica peculiare dalla Daarr (che presto riprenderà il nome di Uaarr) è la grande quantità di funzionari ivi confluiti dall’Ovra <4: da questa provengono, infatti, i primi tre direttori dell’Ufficio Gesualdo Barletta <5, Domenico De Nozza e Ulderico Caputo <6. Fino alla gestione Figurati, nominato direttore dal ministro Taviani nel 1963, si può dire che non ci sono più stati grandi cambiamenti all’interno dell’Ufficio né c’è molto da dire sull’Uaarr del primo quindicennio postbellico: quello che è stato l’ambito principale dell’Uaarr prebellico e dell’Ovra – ovvero la sorveglianza dell’ambiente comunista – è ora territorio esclusivo di Sifar e Carabinieri <7. Tra le poche cose degne di nota di tale periodo si possono evidenziare l’importantissimo contributo qualitativo portato dal direttore De Nozza, la gestione della questione altoatesina – nella quale si distingue Silvano Russomanno <8 (futuro vicedirettore) – e la vicenda dell’Organization Armée Secrète (Oas) <9 – nella quale si distingue invece Federico Umberto D’Amato (futuro direttore). Dal 1963 l’astro dell’Uaarr ricomincia a splendere grazie alla direzione di Savino Figurati e all’ottima figura fatta dall’Ufficio in campo internazionale. Oltre a un’importante riorganizzazione interna, questo periodo si caratterizza per l’ingresso di D’Amato, con il ruolo di rappresentante del Ministero dell’Interno italiano, nell’Ufficio di Sicurezza Interna del Patto Atlantico (Uspa) e la sua nomina a delegato italiano nel Comitato di Sicurezza della Nato, cose che valgono all’Uaarr la qualifica di Autorità per la Sicurezza Nazionale e l’acquisto della capacità autonoma di concedere il Nulla Osta Sicurezza (Nos) strappando l’esclusiva alla Difesa e al Sifar <10. Sempre durante la direzione di Figurati nasce, per iniziativa di D’Amato, il Club di Berna: un ufficio di coordinamento dei servizi di polizia europei al quale aderiscono Inghilterra, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Danimarca, Norvegia, Irlanda, Svizzera e Romania, con l’aggiunta successiva dei non europei Israele e Usa <11. Una volta dimessosi (per questioni di salute) Savino Figurati la direzione dell’Ufficio passa a Elvio Catenacci che nomina D’Amato suo vice, ma in realtà D’Amato è direttore “di fatto”. Tra il ’69 e il ’71 assistiamo a nuovi cambiamenti di sigle e competenze all’interno dell’Ufficio che perde il suo storico nome di Uaarr per diventare Servizio Informazioni Generali e Sicurezza Interna (Sigsi) alla cui direzione è posto D’Amato. Il periodo di direzione di D’Amato <12 – inizialmente solo una direzione “di fatto” formalizzata soltanto nel ’70 – è il più importante, nel bene e nel male, per l’Ufficio: tutte le organizzazioni politiche (sia parlamentari che extra, sia di sinistra che di destra) vengono infiltrate, influenzate e, spesso, eterodirette e finanziate. La rete degli informatori di D’Amato è capillare e trasversale: dal segretario particolare di Pino Rauti Armando Mortilla, a Maria Musu del Pci, dal giornalista del “Corriere della Sera” Alberto Grisolia a Ennio Capercelato de “Il Manifesto” <13. La rete di D’Amato si è anche orientata verso alcuni dei più lugubri personaggi della nostra recente storia: Almirante, Pisanò, Nencioni e La Bruna sostengono che Stefano Delle Chiaie sia stato un «agente consapevole dell’Uaarr», Adriano Tilgher (membro di Avanguardia Nazionale) parla di un finanziamento di 300.000 £ al mese ad An e Serafino Di Luia, leader di “Lotta di Popolo”, sostiene che Mario Merlino sia stato «mandato tra gli anarchici» da D’Amato stesso, ma si parla anche di un contatto con Delfo Zorzi e Franco Freda <14. Del resto, a dare una spiegazione a tale modus operandi è D’Amato stesso in una lettera riservata inviata al ministro dell’Interno Rognoni: “Operando in modo autonomo e personale ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i settori e con ogni persona che ritenevo utile a tali fini. Se le mie frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta, io, come chiunque peraltro svolga compiti di tale genere, potrei essere considerato, caso per caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente del servizio americano o sovietico, emissario di questo o di quel partito politico” <15. L’Ufficio Affari Riservati viene sciolto dal ministro Taviani nel 1974 <16. In seguito agli scandali scoppiati a causa dei depistaggi sulle indagini per la strage di piazza Fontana <17, a quelli sulle intercettazioni abusive, emerso tra il ‘71 e il ‘72 <18, e alla strage di piazza della Loggia a Brescia anche l’Ufficio vive quella «totale delegittimazione dei servizi di sicurezza» <19 che nello stesso periodo sta vivendo il Sid. Fino al 1977, anno in cui vede la luce il Servizio di Informazioni per la Sicurezza Democratica (Sisde), le competenze dell’Uaarr sono assorbite dal neonato Ispettorato Generale per la lotta al terrorismo <20. Con la sola eccezione di D’Amato, mandato a dirigere la Polizia di Frontiera <21, l’intero organigramma dell’Uaarr confluisce nei due nuovi organi al punto che Russomanno, già vicedirettore dell’Uaarr, diventa vicedirettore del Sisde. [NOTE] 1 Futuro direttore della catena Jolly Hotel. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., p. 37. Pacini G., Il cuore occulto del potere., p. 33. De Lutiis, I servizi segreti in Italia cit., p.47. 2 Alla spedizione finalizzata a prendere contatto con Leto e con altri alti funzionari dell’Rsi prende parte anche il giovane commissario Federico Umberto D’Amato. Questo evento viene considerato un fatto da Giacomo Pacini e raccontato da D’Amato stesso in un intervista rilasciata alla BBC (Timewatch, Operation Gladio, BBC2, 10 giugno 1992), ma Aldo Giannuli ne parla come di una «tradizione orale». Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., p. 25, 91. Pacini G., Il cuore occulto del potere cit., p. 93. 3 Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., p. 25. 4 Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., p. 36. Giannuli A., L’armadio della repubblica cit., p. 24. 5 Durante la sua gestione dell’Ufficio, sostiene Tomaso Vialardi di Sandigliano, l’Uaarr viene utilizzato come copertura per «strutture alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Interno con compiti di controinformazione anticomunista» facenti capo a Edgardo Sogno. Vialardi di Sandigliano T., Il libro degli ospiti cit., p. 67. 6 Ex funzionati dell’Ovra rimangono pertanto al vertice dell’Uaarr sino al 1961. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., pp. 37, 49, 68. 7 Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., p. 39. 8 Russomanno, mandato in Alto Adige in quanto conoscitore della lingua e dei luoghi (ha combattuto in questa zona durante la Guerra nella Flak, la contraerea tedesca), ha fatto un ottimo lavoro nella creazione di una rete di informatori e nel curare i rapporti con i suoi omologhi austriaci e tedeschi. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., pp. 70-71. 9 Vedi supra nota 1 p. 10 Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., p. 86. De Lutiis G., I servizi segreti in Italia cit., pp.103, 150, 527. Pacini G., Il cuore occulto del potere cit., 84-85. Scheda personale del Dott. Federico Umberto D’Amato. Rapporto informativo per l’anno 1970, in Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. II. cit., pp. 131-136. 11 D’Amato ne è, oltre che fondatore, il Presidente, carica che diventerà onoraria dopo il suo pensionamento. In tal «consorteria internazionale degli 007» scrive D’Amato «vengo ricordato con simpatia e […] alla fine dei loro simposi, i miei ex colleghi delle varie parti del mondo levano il bicchiere in ricordo del “Padrino”, soprannome con il quale vengo indicato». D’Amato F. U., Menù e dossier cit., p.25. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., pp. 87, 104-111. Giannuli A., Perizia Salvini cit., p. 276. Pacini G., Il cuore occulto del potere cit., pp. 85-87. 12 Spesso indicato, per le sue eccezionali doti investigative ed organizzative, come il Fouché italiano (De Lutiis, I servizi segreti in Italia cit., p. 406) o, come scrive il “Wall Street Journal” nel 1985, l’Edgar Hoover italiano (citato in Pazienza F., Il disubbidiente cit., p. 140 ). Aldo Giannuli sostiene invece che ciò non corrisponda a verità, è piuttosto Hoover ad essere il “D’Amato americano” (Giannuli A., L’armadio della Repubblica cit., p. 45). 13 Fascicolo “Fonti” sequestrato presso la Direzione della Dcpp (Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione) dall’Ag veneziana, inchiesta dott. Mastelloni. Elenco Fiduciari, in Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. II cit., pp. 115-123. 14 Giannuli A., L L’Ufficio Affari Riservati Vol. I cit., pp. 135-139. Giannuli A., Bombe a inchiostro cit., pp. 61-67. De Lutiis G., I servizi segreti in Italia cit., pp. 102-103, 161-162. Pacini G., Il cuore occulto del potere cit., pp. 199-230. Ferraresi F., Minacce alla democrazia cit., p. 131. 15 Pacini G., Il cuore occulto del potere cit., p. 7. 16 Giannuli A., L’armadio della Repubblica cit., p. 25. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. II cit., p. 39. De Lutiis, I servizi segreti in Italia cit., p. 230. 17 Due sono gli eventi che hanno generato lo scandalo e persino imputazioni a carico di Elvio Catenacci e dei capi degli uffici politici delle questure di Milano e di Roma Antonio Allegra e Bonaventura Provenza: la mancata comunicazione agli inquirenti della segnalazione fatta dai proprietari della valigeria Al Duomo di Padova che, giusto un paio di giorni prima della strage di piazza Fontana, avevano venduto delle borse uguali a quelle poi usate per gli attentati e per aver trattenuto alcuni corpi di reato che sarebbero stati utili a ricostruire le dinamiche delle esplosioni sia di Milano che di Roma. Il tutto si concluse in un nulla di fatto tra un “non luogo a procedere” e un’amnistia. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. II cit., p. 30. Pacini G., Il cuore occulto del potere cit., pp. 168-170. Requisitoria Alessandrini, pp. 26, 33, 34, 174, 263-270, 272. Soltanto nel 1996, in seguito alla scoperta dell’archivio “perduto” dell’Uaarr fatta da Aldo Giannuli si scopriranno altri reperti trafugati relativi questa volta alle esplosioni della “notte dei treni” dell’agosto ’69 (vedi supra). 18 Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. II cit., p. 31-35. 19 Giannuli A., L’armadio della Repubblica cit., p. 25. 20 Giannuli A., L’armadio della Repubblica cit., p. 25. 21 Questo può essere visto come un declassamento, ma in realtà acquisisce così 9.000 sottoposti e, da tal posizione, meno esposta, mantiene fino al suo pensionamento un importante ruolo di consigliere e consulente del Viminale. Giannuli A., L’Ufficio Affari Riservati Vol. II cit., p. 39. **Igor-Andy Caputo** , _1969. Un anno esplosivo_ , Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2011-2012 Facebook Twitter Pinterest LinkedIn
collasgarba2.altervista.org
October 18, 2025 at 12:05 AM
Rita Della Giovanna agisce sulla tela con il solo colore adrianomaini.altervista.org/ri…
Rita Della Giovanna agisce sulla tela con il solo colore
Rita Della Giovanna, Trasparenza dell’onda. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra Rita Della Giovanna, Danza classica – olio su tavola, 70x50cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra […] L’artista lombarda Rita Della Giovanna assorbe le esperienze e le tracce artistiche delle due correnti appena descritte, lontane dal punto di vista temporale e tuttavia perfettamente affini e contigue, per dare vita a uno stile fortemente personale contraddistinto da un lato dallo sguardo rapito e coinvolto verso la natura con tutte le sue sfumature cromatiche e spontaneamente espressive, dall’altro dall’utilizzo di pennellate frammentate e avvolte di luce, caratteristica questa appartenente sia all’Impressionismo che al Romanticismo, con cui mette in evidenza gli sfondi su cui sono collocati i soggetti e la leggerezza e la delicatezza delle ballerine, altro punto in comune con il maestro Edgar Degas; in tutte le sue opere fuoriesce in maniera chiara ed evidente la sua emotività, il suo essere assolutamente conquistata da ciò che cattura con lo sguardo e che poi si traduce in desiderio e impulso di raccontare attraverso l’arte. Rita Della Giovanna, Nepal, ragazza affacciata sul muretto – olio su tavola, 70x35cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra Il fulcro della sua pittura è l’osservazione nel caso in cui sceglie di immortalare l’essere umano con tutte le sue sfaccettature, mostrando un approccio accogliente e mai giudicante, quasi fosse mossa dal desiderio di portare alla luce quelle sensazioni che dagli sguardi o dai gesti emergono, e contemplativo quando invece si trova davanti alla bellezza incontaminata, struggente e a volte impetuosa della natura o alla perfezione plastica delle ballerine, tema ricorrente nei suoi dipinti. È dallo sguardo che nasce l’emozione, ed è dalla capacità di comunicarla che nasce l’arte per Rita Dalla Giovanna, la quale presenta un’ulteriore caratteristica che la accomuna agli impressionisti, quella di non preparare la tela con il disegno bensì agire su di essa con il solo colore, rendendo pertanto il risultato finale molto più morbido ed evanescente nei dettagli ma fortemente incisivo nell’emozionalità che ne fuoriesce […] Rita Della Giovanna, Mareggiata – olio su tavola, 45x70cm. Fonte: Marta Lock, art. cit. infra Nell’opera _Mareggiata_ di Rita Della Giovanna non si può non notare la similitudine con William Turner, sia per la riproduzione della forza delle acque sia per l’utilizzo della luce che letteralmente fuoriesce dall’accostamento di colori, andando a generare però, in questo caso, non più la sensazione di minaccia e di pericolo avvertita di fronte alla maestosità della natura, bensì un senso di avvolgenza, un desiderio di perdersi in quelle onde che sembrano voler cullare e proteggere. La gamma cromatica è reale, le sfumature riproducono esattamente la tonalità dell’acqua e del cielo che la sovrasta, a sua volta non cupo e incombente bensì tendente a mostrare il suo lato positivo, quell’azzurro di sottofondo che lascerà spazio al sereno quando il mare si sarà calmato. **Marta Lock** , _L’Impressionismo Romantico di Rita Della Giovanna, quando l’impalpabilità delle sensazioni si fonde con la leggerezza interpretativa_ , L’Opinionista, 25 ottobre 2024 Share:
adrianomaini.altervista.org
October 17, 2025 at 5:57 PM