Recensioni Fuori Tempo
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Dopo i mostri della Universal è giunto il momento di parlare di quelli della Hammer: meno magia, molto più sangue e concretezza, busso budget ma tanto cuore. Iniziamo da Frankenstein.

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horror cult
la maschera
di frankenstein
Terence Fisher
(1957) Dopo la Universal è stata sicuramente la Hammer la casa di produzione più importante nella produzione di film horror. Anzi, il suo lavoro servì in un certo senso a rilanciare il genere dopo anni in cui era diventato sempre meno importante e sempre più associato al concetto di “produzione minore”. Alla fine dei conti Hammer non fa niente per nascondere i bassi budget dei suoi film o per riciclare idee già viste sullo schermo tanti anni prima, eppure le sue riproposizioni di alcuni dei mostri più celebri del cinema degli anni ‘30 sono state baciate da un successo di pubblico incredibile e inatteso.
La Maschera di Frankenstein riprende il romanzo di Shelley e il film di Whale ma lo adatta al gusto del pubblico dell’epoca. Nel film si possono notare tutti gli elementi che poi diverranno distintivi nella lunga serie di pellicole successive: l’horror si fa più estetico, più macabro, più violento, non si fa problemi a mostrare il rosso accesso del sangue e a dare vita a una macchina da presa che guarda in faccia la violenza, senza voltarsi dall’altra parte, senza farla intuire allo spettatore; le reinterpretazioni delle storie originali sono libere e piuttosto fantasiose, messe al servizio di trame dinamiche e “avventurose”.
Qui a interpretare la creatura, con un trucco discutibile, è Christopher Lee, ma è il Frankenstein malvagio e senza scrupoli di Peter Cushing a rubare la scena. I due, insieme al regista Terence Fisher, saranno i volti immancabili di tutte le principali produzioni della Hammer, in un rinnovamento totale di quella “formula seriale” che aveva fatto la fortuna della Universal quasi trent’anni prima.
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Ah ok 😂😂 si fare la parata perfetta penso sia tra le cose che meno mi riescono in un gioco 😂😂
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I Vampiri, anche se non parla di vampiri è considerato a tutti gli effetti il primo vero horror italiano: si tratta di un giallo a tinte sovrannaturali con alcuni tocchi estetici di pura classe.

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horror cult
i vampiri
riccardo freda
(1957) Con un salto temporale piuttosto marcato ci spostiamo molto avanti negli anni, ad una nuova epoca per il cinema, ma riusciamo finalmente a tornare in Europa, questa volta in Italia. I Vampiri, a detta di molti, rappresenta il primo horror italiano nella storia. Alla regia Riccardo Freda, alla fotografia Mario Bava, fautore dell’atmosfera spettrale del film e di alcune trovate estetiche di grande impatto visivo. La storia, a discapito del titolo, si sviluppa come un giallo investigativo in cui un giornalista cerca di far luce sulla morte di alcune giovani ragazze.
Il mistero si svelerà in modo piuttosto inaspettato, in un ibrido improbabile ma ben riuscito tra gotico e fantascienza. Il film è molto ingenuo e svela fin troppo facilmente i suoi trucchi, spargendo indizi sin troppo facili da cogliere e svelando troppo presto la sua “vera storia”. Più della Parigi “di cartone” in cui si svolgono gli eventi, a colpire sono le scenografie dell’inquietante maniero in cui è ambientata tutta la seconda parte del film: le architetture retrò, sapientemente amalgamate con futuristici strumenti scientifici, danno al tutto un sapore a suo modo unico e peculiare.
A restare ben impressa nella memoria resta comunque l’incredibile trasformazione “in tempo reale” di Giselle, un colpo di genio frutto di una geniale commistione tra uso delle luci e trucco ideata da Bava. I Vampiri, che all’epoca fu un insuccesso clamoroso, resta oggi, nonostante alcune ingenuità e un finale inutilmente didascalico e conciliatorio, un gradevole prodotto della fin troppo sottovalutata scuola horror italiana.
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perché con il termine parry si parla di "parata perfetta", cioè fermi il colpo dell'avversario al momento più giusto, innescando di solito un effetto più positivo rispetto alla parata semplice.. si, solo una complicazione in più..😂
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Lasciamo la Universal per passare a un nuovo tipo di horror, più giocato sul non visto, sulle sensazioni e sull'atmosfera. E di atmosfera e "trucchetti" per spaventare Il Bacio della Pantera ne ha tanti.

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orror cult
il bacio 
della pantera
Jacques Tourneur
(1942) Nel buio della solitaria notte di una città una donna viene inseguita da una presenza tanto inquietante quanto silenziosa. Passi misteriosi riecheggiano dietro di lei, la tensione sale, la donna è sempre più spaventata. Un sibilo riecheggia da lontano, si fa sempre più forte, l’attacco è imminente, l’orrore pronto a esplodere: invece era soltanto un autobus che stava per arrivare alla fermata.
Con un trucco di scena tanto semplice quanto geniale (il “Lewton Bus”, dal nome del produttore del film) Il Bacio della Pantera diede vita ad uno degli stilemi più tipici dell’horror, quello di momenti dove la tensione, costruita a regola d’arte, finisce per risolversi con un nulla di fatto, ingannando lo spettatore e le sue emozioni. Ma questo film di Jacques Tourneur è anche un perfetto esempio di come non servano grandi budget per realizzare buoni horror.
Il film non mostra mai davvero il pericolo ma ce lo lascia intuire, lo mette sempre fuori dall’occhio dalla macchina da presa, ce lo suggerisce con grandi giochi di luci e ombre, oggetti di scena e visioni allucinate. Sappiamo cosa sta succedendo ma non lo vediamo se non per qualche secondo nei minuti finali, ma questo non spegne mai quella sensazione di claustrofobica tensione che permea ogni sequenza: è il gran valore aggiunto di un film che, altrimenti, sarebbe stato solo la storia piuttosto insipida di un banale triangolo amoroso.
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L'Uomo Lupo è l'ultimo mostro che abbiamo scelto in questa carrellata di film mitici della Universal. Anche questo film fa parte di una pagina storica dell'horror cinematografico, grazie alle sue atmosfere indimenticabili.

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rror cult
l’uomo 
lupo
George Waggner 
(1941) Altro film capace di creare un immaginario immortale e capace di imporsi fino ai giorni nostri. Se gli uomini che si trasformano in lupi con la luna piena sono diventati un classico buona parte del merito va tutto a questa piccola perla di George Waggner. E va detto che negli anni nessuno è riuscito a replicare con la stessa efficacia la forza drammatica della storia di Larry Talbot e della terribile maledizione che lo ha colpito. Lui (seppure un po’ stalker) è dipinto come un eroe buono, quasi ingenuo e la sua parabola drammatica colpisce proprio perché si comprende, sin da subito, che abbiamo davanti un uomo il cui destino è segnato.
La costruzione è magistrale, mette gli elementi in gioco e poi va dritta al sodo, come da tradizione per la Universal di quegli anni. Il dramma viene spinto sino alle sue estreme conseguenze, valorizzato da personaggi misteriosi e carismatici e da un’unione molto intelligente tra modernità e folklore capace di rendere tutto ancora più “sinistro” e misterioso.
Tutto viene ulteriormente valorizzato da un uso molto intelligente delle scenografie e delle location, sempre oscure, avvolte dalla nebbia e illuminate da luci fioche e lontane e dalla resa estetica del licantropo grazie alla solita maestria al trucco di Jack Pierce. Di tutti i licantropi che abbiamo visto sul grande schermo non ce n’è uno che non si sia anche solo in parte ispirato a quello di questo film.
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Altro film mitico della Universal, con un uso degli effetti speciali per l'epoca incredibile e un tono e uno stile piuttosto inediti per l'epoca. Gran film.

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horror cult
l’uomo
invisibile
james whale
(1933) Altro caposaldo dell’epopea horror della Universal, L’Uomo Invisibile è uno dei mostri più amati del cinema degli anni 30’, campione d’incassi e capace, come pochi altri film dell’epoca, di mostrare la forza espressiva di trucchi scenici ed effetti speciali. Lo stile è sempre lo stesso: conciso, asciutto, rapido e senza fronzoli, ma con una forte predilezione per la componente visiva. Al centro della scena uno scienziato pazzo sotto gli effetti del suo stesso siero dell’invisibilità, pronto a tutto pur di sfruttare la sua creazione per conquistare il mondo.
James Whale, veterano del genere, lo mette al centro della scena e l’invisibilità diventa la chiave di volta per evocare la sua presenza in ogni momento, anche quando non lo vediamo fisicamente in scena. Voci fuori campo, oggetti che si muovono da soli, orme sulla neve fresca, sono solo alcuni dei trucchi utilizzati per dar vita a un horror dinamico, molto più action dei suoi predecessori.
Il film diventa molto presto una caccia all’uomo senza quartiere, con centinaia di agenti impegnati in una cattura impossibile: il tono generale, seppur cupo, è capace di virare sui toni della commedia nera con una certa naturalezza. Un film importantissimo che ha mostrato al cinema horror una leggerezza che sino a quel momento era sembrata impossibile.
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Ancora Boris Karloff per un altro film storico della Universal, anche questo riproposto in mille salse, sequel e remake nel corso degli anni. Ma la prima Mummia non si batte.

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horror cult
la mummia
Karl Freund
(1932) L’idea era semplice, prendere Boris Karloff, la sua imponente fisicità e il suo “volto inespressivo” e metterlo al servizio di un ruolo ben più particolare o complesso in cui non avrebbe più dovuto solo mugugnare ma anche mettere in gioco le sue doti. La Mummia è stato un altro enorme successo della Universal di quegli anni, talmente forte da scoraggiare dei veri e propri seguiti diretti negli anni successivi e da portare la stessa casa produttrice a riprenderne la storia nel popolare remake del 1999.
Tutto è giocato su ambientazioni evocative e su una cultura affascinante come quella egiziana, carica di misteri e credenze tanto forti da essere la vera linfa vitale di un film che, a guardarlo bene, non è altro se non un triangolo amoroso tra una “mummia”, la sua amata reincarnata e un giovane studioso britannico. Ancora una volta sono i misteri a parlare, i lunghi dialoghi, i non visti e una paura che diventa sentimento latente, presente sotto traccia in ogni secondo del film.
Bastano poche didascalie iniziali e un antefatto efficace e conciso a farci immergere in una vicenda di morte e rinascita vista attraverso gli occhi di un uomo il cui unico peccato è stato amare troppo la donna sbagliata. Impossibile non citare il lavoro incredibile di Jack Pierce, truccatore a cui si deve il trucco di Karloff e la creazione di tutte le “maschere” che hanno reso iconici i personaggi horror di quegli anni.
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Dopo Dracula è il momento di Frankenstein, altro mostro di Universal che ha fatto scuola grazie al mitico Boris Karloff.

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horror cult
frankenstein
james whale
(1931) Abbiamo parlato di Bela Lugosi come figura iconica del “periodo mostruoso” della Universal, ma più di lui è stato forse Boris Karloff quello capace di stagliare con maggiore forza la sua figura nell’immaginario comune. Merito di un mostro che, partito dalla penna di Mary Shelley e passato per un adattamento teatrale del 1800, è arrivato sul grande schermo diventando, senza alcun dubbio, la creatura mostruosa più iconica nella storia del cinema, quella con cui tutti, prima o poi, avrebbero dovuto fare i conti se avessero voluto parlare di mostri.
Tutto, visto con gli occhi di oggi, appare classico in Frankenstein, dalla storia ai personaggi, passando per le tematiche e lo svolgimento, ma sono stati la genialità di James Whale e la forza interpretativa di Karloff a renderlo tale. Parliamo di scelte che poi sono diventate vera e propria iconografia del genere: lo scienziato pazzo e il suo gobbo aiutante, la notte buia e tempestosa in cui cose inanimate prendono vita, la folla inferocita con le fiaccole, il mulino che va a fuoco nella notte.
Quante volte abbiamo visto queste scene? Tante, ma è stato tutto merito di questo film. Frankenstein ci regala 70 minuti dinamici e ricchi di spunti, con Whale che muove la sua macchina da presa con fluidità, regalandoci carrellate e scorci davvero indimenticabili e donando al tutto un dinamismo capace di superare le “logiche statiche” dei melodrammi hollywoodiani di quegli anni. L’orrore, seppur con una certa delicatezza, iniziava a farsi più esplicito, vuoi per la possente presenza della creatura, vuoi per una bambina gettata in un fiume che all’epoca creò tante polemiche: Frankenstein cambiò davvero le cose per il cinema horror.
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La Universal ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione del cinema horror. I suoi mostri hanno segnato l'immaginario di tutti noi. Qui un vero pezzo da 90, con il volto indimenticabile di Bela Lugosi: Dracula.

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horror cult
dracula
tod browning
(1931) Ci sono interpretazioni che entrano nella storia e che fissano nel tempo un’iconografia impossibile da scardinare: Bela Lugosi è Dracula e lo sarà sempre e chiunque si sia confrontato con il personaggio negli anni ha dovuto fare i conti con la sua interpretazione, il suo look e le sue movenze. Dal 1931 i vampiri, in qualsiasi forma d’arte siano comparsi, hanno preso ispirazione dal protagonista del celebre film della Universal.
Una pellicola che deve tanto al Nosferatu di Murnau, soprattutto nell’evoluzione della storia e in alcune trovate estetiche, ma ammanta il tutto con il rigore da “fotoromanzo popolare” delle pellicole di quell’epoca. L’ambientazione è moderna, l’illuminazione predominante e lo stesso Conte Dracula non è più una rivoltante creatura ma un lord d’altri tempi, elegante nei modi e nel vestiario.
La luce spettrale che nei illumina lo sguardo, le movenze e la sua calma serafica lo rendono un personaggio inquietante e spaventoso: nonostante la violenza efferata non venga mai mostrata a schermo, il film riesce a trascinare facilmente lo spettatore nel suo vortice di tensione, grazie al carisma dei suoi protagonisti e alla forza di una storia immortale. Un orrore certamente di altri tempi, che si nutre di infiniti dialoghi, di volti, di immaginari e di non visti. Oggi tutto questo sarebbe impossibile, ma allora per spaventare lo spettatore bastava solo crederci.
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Ancora un film muto per uno degli horror più iconici della storia: Il Fantasma dell'Opera regala scene indimenticabili e un personaggio altrettanto memorabile, per una delle maschere più spaventose di sempre.

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horror cult
il fantasma
dell’opera
rupert julian
(1925) Voliamo in America, alla corte della Universal, casa di produzione che per anni ha portato in sala alcune delle creature più iconiche dell’immaginario horror. Il Fantasma dell’Opera, nella sua versione originale muta del 1925, deve tanto all’espressionismo gotico di matrice tedesca, soprattutto nelle ambientazioni e in alcune scenografie, ma ha insita una semplicità di schemi, situazioni e interazioni tutta statunitense.
Quello di Rupert Julian resta ancora oggi un capolavoro, tra i migliori adattamenti del romanzo di Gaston Leroux: nel raccontare del terribile “fantasma” e della sua ossessione amorosa per una giovane cantante d’opera, il film da vita a una serie di sequenze evocative e inquietanti, aiutate da una fotografia in bianco e nero, ma che varia di tonalità a seconda del momento e da costumi d’epoca, scenografie spettrali illuminate da luci fioche e un’Opera di Parigi ricreata per regalare un colpo d’occhio sempre sontuoso e maestoso.
Ma se ancora oggi questo film viene ricordato come uno dei capisaldi dell’horror dei primordi il merito è quasi tutto di Lon Chaney e della sua interpretazione, così enfatica e solenne e del suo trucco, che scioccò e sconvolse gli spettatori dell’epoca. La scena in cui Christine gli toglie la maschera e il suo vero volto viene mostrato per la prima volta lascia ancora oggi a bocca aperta per lo stupore (e la paura).
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Paul Wegener ha rappresentato una figura di grande importanza per il cinema muto tedesco, autore e attore di film importantissimi come quelli sul Golem. Questo del 1920 è l'unico che ci è arrivato integro.

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l golem:
come venne al
mondo
Henrik Galeen, 
Paul Wegener
(1920) Ancora Paul Wegener, sempre nelle vesti di regista, sceneggiatore e attore, in un film che decide di dare vita ad uno degli stilemi più classici del cinema horror, il mostro. Per farlo decide di attingere alla cultura ebraica e alla figura del Golem, mostro d’argilla che prende vita grazie a un rituale magico e a un amuleto. Lo schema è quello classico che tra un Frankenstein e l’altro abbiamo imparato molto bene a conoscere: la creatura viene portata in vita ma si rivela pericolosa, provoca danni e violenze e viene abbattuta.
In questo film muto del 1920, però, tutto questo viene inserito nel contesto del cinema espressionista tedesco da sempre costruito sull’enfasi della recitazione, su scenografie evocative e su un alone d’inquietudine che tutto ricopre e pervade. Nel tono di una recitazione teatrale oggi naturalmente superata si possono però scorgere dei momenti davvero incredibili: il rito magico di evocazione del mostro, con tutti i suoi rudimentali “effetti speciali”, tra fulmini, fumo e una testa di demone parlante, è una sequenza ancora oggi evocativa e paurosa.
Di aspetto non certo secondario il tema dell’antisemitismo: gli ebrei di Praga vengono osteggiati, isolati e sono vittime di soprusi e violenze continue, mal visti per le loro tradizioni e i loro costumi. Poco più di 10 anni dopo sappiamo tutti a cosa avrebbe portato quest’odio terribile. Nota a margine: Come Venne al Mondo è l’unico rimasto di una trilogia di film dello stesso Wegener dedicati alla figura del golem e rappresenta il prequel di un film del 1915 di cui ci sono arrivati solo pochissimi frammenti.
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Giorno 2 della nostra maratona horror. Lo studente di Praga è un film seminale, nell'epoca del muto in cui fare paura era solo una questione di immagini, suggestioni e sensazioni. Affascinante.

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horror cult
lo studente 
di praga
Stellan Rye, Paul Wegener
(1913) Caposaldo del cinema espressionista tedesco, Lo Studente di Praga ha il merito di introdurre il tema del Doppelgänger all’interno della narrazione cinematografica. Lo spunto di partenza è tanto chiaro quanto geniale: se il nostro riflesso nello specchio, come una sorta di proiezione visibile del nostro io più profondo, rappresenta qualcosa di molto simile alla nostra anima, cosa succede se decidiamo di venderla per denaro al più infido e cattivo dei personaggi?
Un povero studente di Praga - un Paul Wegnerer nel quadruplo ruolo di protagonista, del suo riflesso, di regista e di produttore - verrà così perseguitato dal suo doppio, che finirà per allontanarlo dalla donna che ama, facendogli compiere azioni che lui non vorrebbe fare, arrivando anche a farlo impazzire, fino a una fine terribile e beffarda.
Il tema del doppio e della sua natura viene affrontato con disincanto, cinismo e una fortissima dose di magia visiva: Wegnerer e il suo riflesso appariranno spessissimo insieme in scena; gli specchi, da un certo momento in poi, finiranno di proiettare la sua immagine e un velo sempre più pesante e oppressivo renderà un film inizialmente inquietante via via sempre più oscuro e cupo. E come un qualsiasi horror che si rispetti, seppur questo per i canoni moderni non lo sia del tutto, il finale è beffardo e ancor più folle di tutto ciò che lo ha preceduto.
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Oggi, 1 ottobre, inizia la prima parte di un viaggio di 31 giorni nella storia del cinema horror. Tutto è iniziato così, da pochi minuti di puro terrore da uno dei maestri del cinema, George Melies.

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horror cult
la manoir
du diable
george melies
(1896) Tre minuti dal maestro della magia cinematografica per eccellenza, George Melies. Prima di viaggiare sulla Luna, l’iconico regista, alle porte del 900’, aveva dato vita a quello che, per molti, è considerato il primo film horror della storia. Inquadratura fissa, fotografia ocra, usurata dal tempo passato e un montaggio che da vita ad alcuni trucchi scenici ancora oggi sorprendenti.
Un pipistrello si trasforma in un diavolo umano malvagio - introducendo quello che diventerà uno degli stilemi dell’iconografia horror - e mette in campo tutta la sua magia per dar vita a creature sempre più terribili che metteranno in pericolo due uomini. Uno di loro userà un crocifisso, simbolo di sacralità e salvezza, per sconfiggerlo prima che sia troppo tardi.
Abbiamo davvero tutto quello che serve per dare vita a una storia tanto semplice quanto spaventosa, dove la trama è solo un pretesto per mostrare il potere evocativo dell’immagine e degli effetti speciali: per quanto quei trucchi, al giorno d’oggi, siano molto facili da comprendere e non più così sconvolgenti, è incredibile pensare che, nel 1896, bastasse usare un po’ di abilità nell’unire due sequenze e un po’ di fumo per dar vita a cose di questo tipo. Era l’inizio di una grande storia che, oggi come allora, continua a sorprenderci, stupirci e, naturalmente, spaventarci.
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Gran bella storia questa. Un classico..😉
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Gli darò un occhio, grazie mille! 😉
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Questo non lo so perché ci capisco ben poco, ma mi fido..😁 (e l’idea di realismo che da comunque è molto forte)
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Per ora han trasmesso solo le prime due puntate ma sembra ben fatto. Lo stile è quello di ER, senza dubbio. La cosa originale è che è “in tempo reale”: la stagione segue un turno al pronto soccorso in ordine cronologico e ogni puntata mostra un’ora di quella giornata.
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Ieri ho iniziato The Pitt e devo dire che mi è piaciuto, riportandomi a quelle atmosfere alla ER tutte realismo, emotività e pochi fronzoli. Quando i medical drama non cercavano di essere tutti Grey's Anatomy.

#SerieTV
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Salesman è un documentario piuttosto interessante che racconta la fine degli anni '60 e i suoi grandi cambiamenti seguendo un gruppo di venditori americani di bibbie.

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salesman

Albert e 
David Maysles
(1969) Una fotografia cruda e impietosa dell’America di fine anni 60’, delle sue infinite contraddizioni sociali e di una società pronta a trasformare tutto in guadagno, anche la fede e la religione. Salesman è il racconto del sogno americano fatto e finito, dove c’è sempre qualcuno pronto a vendere qualcosa a qualcun altro. Albert e David Maysles, insieme a Charlotte Zwerin, ci raccontano le storie di quattro venditori di bibbie porta a porta, in viaggio perenne negli Stati Uniti alla ricerca del guadagno sempre più alto.
Salesman è un documentario che lavora per sottrazione, dove la mano di chi dirige, riprende e ascolta viene fatta sentire il meno possibile: due telecamere, un microfono e un occhio che cerca sempre il punto migliore per raccontare l’azione. I registi sono ben presenti, ma non intervengono praticamente mai nel flusso narrativo, non imbeccano i protagonisti, non gli domandano niente, lasciano che siano loro a portare avanti la loro storia nel modo più normale possibile.
I momenti di vita vissuta si alternano in modo costante e ripetuto, tra lunghe ricerche e sessioni di vendita, viaggi infiniti e confronti tra venditori in camere d’hotel con la televisione accesa. Attraverso il racconto delle varie persone coinvolte questo film è una perfetta cartolina di quegli anni, un documento di enorme valore che fotografa la realtà alla ricerca di una purezza che solo certi documentari naturalistici riescono a raggiungere.
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Il percorso nel cinema di genere di Mainetti prosegue con un film tutto Roma e kung-fu. La Città Proibita è una storia di vendetta con belle coreografie di lotta e qualche intuizione carina. Non mi è dispiaciuto per niente.

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la città 
proibita

gabriele mainetti
(2025) Ormai lo abbiamo capito, Gabriele Mainetti è uno dei pochi a provare a dare un respiro internazionale al cinema nostrano e a voler fare film “di genere”, senza fermarsi ai soliti stilemi italiani, quelli dove non si scappa quasi mai da drammi e commedie. Intendiamoci, queste caratteristiche ci sono anche nel cinema di Mainetti, come unità inscindibili dal nostro modo di fare film, ma sono di volta in volta amalgamati con elementi diversi e unici nel loro genere, almeno qui da noi. La Città Proibita è un film di arti marziali ambientato a Roma, che declina il kung-fu alla Bruce Lee e lo adatta a una più o meno classica storia criminale.
Il respiro, dalle scelte dei colori, passando per il taglio delle inquadrature, sino ad arrivare alle coreografie e alle scene d’azione è molto “internazionale”: a livello formale non sembra insomma di assistere al classico film italiano ma a un action all’americana in tutto e per tutto. La storia punta invece molto forte su Roma e sulla romanità, provando a offrire quel pizzico di originalità altrimenti assente in una storia che rispetta i canoni del classico percorso di vendetta.
Una donna esperta in arti marziali, alla ricerca di sua sorella scomparsa, incrocerà la sua strada con un’organizzazione criminale cinese nella Capitale e con il cuoco di una trattoria italiana con un padre scomparso; due destini e due storie che finiranno per incrociarsi in modo quasi indissolubile. La Città Proibita è una pellicola semplice, piuttosto lineare, senza particolari sorprese, ma che riesce a parlare in qualche modo di noi: interessante come riesca a innescare nella sua struttura riferimenti alla nostra attualità e al razzismo latente inserito nelle maglie di una società che rifiuta il cambiamento anche quando è irreversibile.